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Usa 2016, chiunque vinca rischia un Congresso avverso

20 Ottobre 2016

Dibattiti e sondaggi premiano la Clinton. Ma che trionfi lei o Trump sarà palude. Con un Congresso a trazione anti-presidenziale. Numeri e possibili scenari.

Hillary Clinton fa tre su tre.
Anche nel terzo e ultimo dibattito la candidata dem ha fatto meglio dell’avversario repubblicano Donald Trump.
I sondaggi la danno lanciata verso la Casa Bianca. 
Ma se anche dovesse uscire vincitrice dalle elezioni, l’ex segretario di Stato si troverà a fare i conti – con ogni probabilità – con un Congresso tutt’altro che facile da gestire.
E lo stesso varrebbe per il tycoon.
SI VOTA PER IL RINNOVO DELLE CAMERE. Martedì 8 novembre negli Stati Uniti non si vota soltanto per scegliere i delegati che devono poi eleggere il successore di Barack Obama, ma anche per il rinnovo totale della Camera e di un terzo del Senato.
Dopo le mid term del 2014, entrambi i rami del Congresso sono in mano al Partito repubblicano.
Che ora spera di riuscire a mantenere la maggioranza, nonostante le incognite non siano poche.
A partire dallo stesso Trump.
SITUAZIONE FLUIDA AL SENATO. I sondaggi fotografano una situazione abbastanza fluida, soprattutto per il Senato: qui si ha un totale di 100 seggi, di cui al momento 54 repubblicani e 46 democratici.
In questa tornata, sono in gioco 24 seggi attualmente repubblicani e 10 democratici: a questi ultimi basterebbe conquistarne quattro per salire a quota 50 e raggiungere la parità nella Camera alta.
Un obiettivo non impossibile, tanto più che, secondo il New York Times, i democratici disporrebbero a oggi del 54% di possibilità di riconquistare il Senato contro il 46% dei repubblicani.
Tuttavia – fanno notare gli analisti – quest’anno alcuni Stati potrebbero cambiare partito, determinando al momento una situazione di forte incertezza.
Sul fronte della Camera, i giochi sembrerebbero già fatti, visto che i repubblicani detengono oggi 247 dei 435 seggi complessivi.
E per quanto il Gop potrebbe perderne alcuni, appare difficile che non riesca a mantenere la maggioranza. 

Verso Senato democratico e Camera repubblicana

Il Campidoglio di Washington, sede del parlamento americano.
Il Campidoglio di Washington, sede del parlamento americano.

Numeri alla mano, lo scenario più plausibile vede un Senato in bilico (forse democratico) e una Camera nettamente repubblicana: una situazione che determinerebbe una profonda instabilità politica, indipendentemente dal nome del prossimo inquilino della Casa Bianca.
Maggiore stabilità potrebbe derivare dall’eventualità di un Congresso interamente a maggioranza democratica con Hillary allo Studio Ovale (per quanto non si debba dimenticare l’anima profondamente anti-clintoniana della sinistra del Partito democratico, che potrebbe rivelarsi un osso duro per l’ex first lady). 
COL GOP NESSUNO È AL RIPARO. E se invece fossero i repubblicani a conquistare entrambe le Camere? Un simile scenario non garantirebbe di per sé stabilità politica sia qualora vincesse Clinton sia qualora a prevalere fosse Trump.
Nel primo caso, si avrebbe una coabitazione tra un presidente e un Congresso appartenenti a partiti differenti: non certo una novità nel panorama politico americano (si pensi soltanto al secondo mandato di Bill Clinton o agli ultimi due travagliati anni della presidenza di Barack Obama).
Il secondo caso sarebbe forse ancora più spinoso, visto che The Donald ha già mostrato di non andare d’accordo con l’establishment del proprio partito su un imprecisato numero di questioni.
IL PRECEDENTE DI JOHNSON. Il rischio è quindi che un Congresso repubblicano possa sistematicamente legare le mani a un eventuale presidente Trump, rendendolo sin da subito un’anatra zoppa.
Una situazione in parte analoga a quella di Andrew Johnson. Vicepresidente democratico del repubblicano Abraham Lincoln, subentrò improvvisamente a quest’ultimo dopo il suo assassinio nel 1865.
La sua presidenza fu molto tormentata, con un Congresso repubblicano che lo odiava e che gli mise quindi costantemente i bastoni tra le ruote, fino a intentargli un procedimento di impeachment.
Un pantano istituzionale, in cui gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi molto presto.

Ryan invita i candidati a smarcarsi da Trump
Lo speaker della Camera Paul Ryan cerca di riportare l'ordine.
(© Ap) Lo speaker della Camera Paul Ryan cerca di riportare l’ordine.

L’incognita principale riguarda i voti repubblicani.
Sia Ryan sia il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, stanno invitando i vari candidati in corsa a smarcarsi dal tycoon, per far sì che ciascuno intraprenda autonomamente la propria campagna verso il Campidoglio.
Ma le relazioni intrattenute dai due con il miliardario non sono esattamente sovrapponibili.
L’ENDORSEMENT RITIRATO. Se McConnell ha sinora evitato ogni possibile scontro diretto con Trump, Ryan ci ha più volte battibeccato, in un’altalena continua di atteggiamenti al limite della contraddizione: nel corso delle primarie, criticò più volte il magnate, concedendogli alla fine un endorsement a mezza bocca.
Endorsement prontamente ritirato a seguito della diffusione del video sessista scovato dal Washington Post.
La marcia indietro non è piaciuta granché al miliardario, il quale ha ribattuto di non essere interessato all’appoggio di Ryan.
E a poco sono serviti gli sforzi dei pontieri, come Newt Gingrich: tra Ryan e Trump è ormai guerra aperta e assai difficilmente la ferita riuscirà a rimarginarsi.
PAPABILE CANDIDATO NEL 2020. Il diverso atteggiamento tra McConnell e l’attuale speaker della Camera nei confronti di The Donald è facilmente spiegabile.
McConnell è un politico navigato e pragmaticamente incline al compromesso: ai toni bellicosi ha sempre preferito lo smussamento delle asperità, cosa che gli ha spesso attirato le critiche dell’ala più oltranzista del Grand old party.
Ryan al contrario è più giovane: ha percorso a tappe forzate una carriera politica brillante che lo ha portato dalla candidatura alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 2012 al più alto scranno della Camera, dopo le tumultuose dimissioni di John Boehner nel 2015. Molti analisti danno già Ryan come papabile candidato repubblicano alle Presidenziali del 2020 ed è ovvio allora il suo imbarazzo verso Trump: da una parte, il suo ruolo istituzionale gli imporrebbe di fungere da paciere in seno a un partito spaccato; dall’altra, le sue ambizioni politiche gli impediscono un atteggiamento accondiscendente verso un candidato tanto irruento.

Nel terzo dibattito Hillary cita il caso McCain

John McCain.
(© GettyImages) John McCain.

La maggior parte dei repubblicani in corsa per il Congresso sta cercando di sfilarsi dalla figura ingombrante del miliardario.
È il caso, per esempio, del senatore John McCain.
In cerca di rielezione al Senato in rappresentanza dell’Arizona, l’ex candidato presidenziale ha dovuto affrontare primarie particolarmente dure contro la candidata Kelli Ward, vicina al Tea Party e ammiratrice di Trump.
ROTTURA CON THE DONALD. I rapporti tra il magnate e McCain non sono mai stati idilliaci, in particolare da quando il miliardario negò che il vecchio senatore fosse un eroe di guerra, dal momento che in Vietnam si era fatto catturare (episodio citato da Hillary durante l’ultimo dibattito).
I due avevano tentato poi un riavvicinamento. Ma la flebile intesa è durata poco: sempre a seguito della diffusione del video sessista, McCain ha ritirato il proprio endorsement, dicendosi indignato.
Un altro caso interessante è poi quello di Kelly Ayotte: senatrice repubblicana in rappresentanza del New Hampshire, anche lei è in corsa per la rielezione e anche lei è passata da un appoggio cauto verso il miliardario al ritiro dell’endorsement. Con la differenza che, mentre McCain appare al momento favorito sulla sua rivale democratica Ann Kirkpatrick, i sondaggi danno un testa a testa in New Hampshire tra Ayotte e la democratica Maggie Hassan.
RUBIO VUOLE TENERSI BUONI GLI ISPANICI. Da non sottovalutare, infine, il caso dell’ex candidato alle primarie repubblicane Marco Rubio, che sta correndo per la rielezione senatoriale in Florida.
Anche lui, pur non avendo ritirato formalmente l’endorsement, continua comunque a mantenere una certa freddezza verso Trump.
Del resto, non pochi analisti ritengono che il giovane senatore nutra serie ambizioni in vista delle Presidenziali del 2020.
Senza contare poi che in Florida risulta storicamente fondamentale il voto delle minoranze ispaniche.
Minoranze che non sembrano propriamente a loro agio con i programmi politici del miliardario.