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Popoli della valle dell’Omo. Minacciata la loro sicurezza

di 13 luglio 2016.

© Ingetje Tadros

Una grave minaccia incombe sulla bassa Valle dell’Omo, in Etiopia, dove
da secoli vivono diversi popoli indigeni che contano circa 200.000
persone.

Un’enorme diga idroelettrica, la Gibe III, è
in costruzione sul fiume Omo e fornirà l’acqua a vaste piantagioni
commerciali che si trovano nelle terre ancestrali delle tribù.


La società italiana Salini Costruttori ha iniziato nel 2006 a
costruire l’opera, che ora è quasi completa. Le immagini satellitari
mostrano che il governo ha iniziato a riempire il bacino della diga.



Il fragile ambiente e i mezzi di sussistenza delle tribù,
strettamente legate al fiume e alle sue esondazioni annuali, verranno
distrutti.

Dopo aver effettuato alcuni studi preliminari di valutazione, nel 2010 sia la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sia la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) hanno reso noto di non essere più interessate a finanziare Gibe III.

Ciò nonostante, la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC)
– la più grande banca cinese – ha accettato di finanziare parte della
costruzione della diga, e nel 2012 la Banca Mondiale ha deciso di
finanziare le linee di trasmissione dell’energia.



La diga alimenterà centinaia di chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.

Insieme ad altre associazioni locali e internazionali, idrologi e altri studiosi, Survival ritiene che la diga Gibe III
e le piantagioni avranno conseguenze catastrofiche sui popoli della
bassa Valle dell’Omo, che già vivono ai margini in quest’area arida e
difficile.

Accaparramento di terre e reinsediamenti forzati


Nel 2011 il governo ha cominciato ad affittare enormi appezzamenti di
terra fertile nella regione della bassa valle dell’Omo ad aziende
malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate nella coltivazione di
palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di
biocarburanti.


Per far spazio al grande progetto statale chiamato Kuraz Sugar
Project – che attualmente ricopre 150.000 ettari ma potrebbe fagocitare
un’area di 245.000 ettari – le autorità hanno iniziato a sfrattare dalle
loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di
reinsediamento. Anche i Suri, che vivono ad ovest dell’Omo, vengono
sfrattati con la forza per far posto a vaste piantagioni commerciali.

I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono stati
distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie terre, viene
sistematicamente picchiato e confinato in prigione. Numerose sono le
denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei
militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano
alle infrastrutture e alle piantagioni.



A Bodi, Mursi e Suri è stato intimato di liberarsi delle mandrie –
che rappresentano una parte essenziale del loro sostentamento – e che
nei campi di reinsediamento (dove forse potranno tenere solo qualche
capo di bestiame) dovranno dipendere totalmente dagli aiuti governativi.

 

Famiglia Hamar © Magda Rakita/Survival


Non è stato effettuato nessuno studio di valutazione d’impatto
ambientale o sociale adeguato sulle piantagioni e sugli schemi di
irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati consultati
in merito a questi progetti.


I maggiori donatori di aiuti all’Etiopia, Gran Bretagna e USA,
hanno effettuato diverse visite nella regione per indagare sulle
violazioni dei diritti umani. Una delegazione di donatori è tornata
nella bassa valle dell’Omo nell’agosto 2014 ma i rapporti stilati a
seguito della missione sono stati resi noti solo nel settembre 2015,
dopo che Survival si è appellata alla Commissione Europea.



Nonostante all’inizio del 2015 la Gran Bretagna abbia dichiarato di
non finanziare più il programma Promozione di Servizi di Base (Promoting
Basic Services), che molti denunciano sia collegato al reinsediamento
forzato, il governo ha aumentato i suoi finanziamenti in altre aree e
continua a non spiegare quali meccanismi ha posto in atto per garantire
che questi soldi non contribuiscano agli abusi.

Popoli della Valle dell’Omo
 

La bassa Valle dell’Omo è un territorio di grande bellezza, in
cui ecosistemi diversi si intersecano con una delle ultime foreste
pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa sub-sahariana. Ad
alimentare la straordinaria biodiversità della regione e garantire la
sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del fiume,
prodotte dalle piogge degli altipiani.

I Bodi (Me’en), i Daasanach, i Kara (o Karo), i Kwegu (o Muguji), i Mursi
e i Nyangatom abitano stabilmente lungo le sponde del fiume, da cui
dipendono totalmente. Grazie alle pratiche socio-economiche ed
ecologiche complesse che hanno sviluppato, hanno potuto adattarsi a
condizioni dure e spesso imprevedibili dovute al clima semi-arido della
regione.



Le esondazioni annuali del fiume Omo servono da nutrimento per la
ricca biodiversità della regione e assicurano la sicurezza alimentare
delle tribù, dato che le piogge sono scarse e irregolari.


Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una
varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a
vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le
coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le
rive dell’Omo, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la
pastorizia nelle savane o nei pascoli generati dalle esondazioni. Alcune
tribù, e in particolare i Kwegu, cacciano e pescano.


 

Ragazzini Hamar © Magda Rakita/Survival


Bovini, capre e pecore sono essenziali per sostentare la maggior
parte dei popoli, che li utilizzano per il sangue, il latte, la carne e
le pelli. Il bestiame è di particolare valore e viene usato anche per
pagare le doti delle spose.

È un elemento fondamentale per difendersi dalla fame quando la pioggia e
i raccolti scarseggiano. In alcune stagioni le famiglie si spostano in
accampamenti temporanei per fornire alle mandrie nuovo terreno da
pascolo, e sopravvivono grazie al latte e al sangue di questi ultimi. 

I
Bodi trascorrono ore ad osservare i loro animali e ad ammirarne valore e
bellezza, e spesso compongono canzoni in loro onore.

Altri popoli, come gli Hamar, i Chai o i Suri e i Turkana vivono più
distante, ma grazie ad una rete consolidata di alleanze etniche, possono
accedere alle risorse generate dalle piene dell’Omo nei momenti del
bisogno, specialmente in caso di siccità e carestie.


Anche se cooperano ed effettuano scambi commerciali, tra alcuni di
questi popoli si verificano periodicamente dei conflitti per l’utilizzo
delle scarse risorse naturali. 

Con la progressiva sottrazione di terre
da parte del governo, la competizione è andata crescendo e
l’introduzione delle armi da fuoco ha reso i litigi più pericolosi di un
tempo.

Senza voce


I popoli della valle dell’Omo soffrono da anni per la progressiva
perdita di controllo e di accesso alle loro terre. Negli anni ’60 e
’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi nazionali dalla
cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi.

Negli anni ’80, inoltre, parte delle loro terre sono state
trasformate in grandi fattorie irrigate e controllate dallo stato mentre
recentemente il governo ha iniziato a convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.


I popoli indigeni, che da generazioni usano questa terra per
coltivare i propri raccolti e far pascolare le proprie mandrie, non
hanno avuto voce in capitolo.



Anche se la costituzione etiope garantisce ai popoli indigeni il
diritto alla “piena consultazione” e alla “espressione del proprio punto
di vista nella pianificazione e attuazione di politiche e progetti
ambientali che li riguardano”, di fatto le comunità indigene vengono
raramente consultate in modo appropriato.


I popoli della valle dell’Omo prendono le decisioni pubbliche nel
corso di estesi incontri comunitari a cui partecipano tutti gli adulti.
L’accesso all’informazione pubblica è pressoché nulla perché pochi
parlano l’amarico [la lingua nazionale] e il livello di alfabetizzazione
è tra i più bassi d’Etiopia.



I funzionari di USAID che hanno visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano nulla o praticamente nulla del progetto.

Con l’obiettivo di limitare al minimo il dibattito civile sulle
politiche controverse e censurare il dissenso, nel febbraio 2009 il
governo etiope ha varato il decreto 621/2009. 

Il provvedimento impedisce
a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi
finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le associazioni
esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la società
civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione
democratica.


 

Gruppo festoso donne Hamar© Ingetje Tadros


Nel luglio 2009, l’ufficio giudiziario della regione meridionale ha
revocato il riconoscimento a 41 “associazioni comunitarie” locali con
l’accusa di non cooperare con le politiche governative. Secondo molti
osservatori, si è tratta di una manovra del governo effettuata per
sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla diga.

La diga Gibe III


Nel luglio del 2006, il governo etiope ha affidato alla società
italiana Salini Costruttori la realizzazione del più grande progetto
idroelettrico mai concepito nel paese, la diga Gibe III. Il contratto è stato concluso senza gara d’appalto in violazione delle leggi etiopi.



Iniziati nel 2006 subito dopo la firma della commessa da 1,4 miliardi
di euro, oggi i lavori di costruzione quasi completati e il governo ha
iniziato a riempire la riserva a monte.

La diga sbarrerà il corso centro-settentrionale dell’Omo, il fiume
che scorre impetuoso per 760 km dall’altopiano etiope fino al Lago
Turkana, al confine con il Kenya. Il fiume attraversa i parchi nazionali
Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei
Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza
geologica e archeologica.



Secondo gli esperti la riduzione del flusso del fiume causerà
l’abbassamento del livello del lago Turkana di circa due terzi. Questo
distruggerà la riserve ittiche da cui dipendono centinaia di migliaia di
indigeni.


Le leggi ambientali etiopi vietano la realizzazione di progetti che
non siano stati preventivamente sottoposti a complete valutazioni di
impatto ambientale e sociale (Environmental Social Impact Assessment – ESIA). Nonostante questo, l’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo.



Gli studi di impatto della diga Gibe III (ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI
per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società
costruttrice Salini. Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009,
i suoi risultati sono saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto
sull’ambiente e sulle popolazioni interessate viene valutato come
“trascurabile” o addirittura “positivo”.

Secondo numerosi esperti indipendenti, la diga, le piantagioni e i
canali di irrigazione avranno un enorme impatto sui delicati ecosistemi
della regione modificando le esondazioni stagionali del fiume Omo e
riducendone drammaticamente il volume. Questo causerà l’inaridimento di
molte aree a riva ed farà scomparire la foresta ripariale. 

I popoli
indigeni come gli Kwegu, che dipendono quasi totalmente dalla pesca e
dalla caccia, si troveranno senza più nulla.

Gravissime, denunciano gli scienziati, anche le ripercussioni sul
lago Turkana del Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume
Omo. Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe
compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di
almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal
lago dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.



FONTE: Survival