General

Il giorno in cui sono diventata un numero: il viaggio di una rifugiata siriana

di Elena Paolini, 20 giugno 2016.

Questo contributo di Zozan Khaled Musa, 25 anni, è stato originariamente pubblicato [en] su PRI.org

Dopo un lungo viaggio al buio nel Mar Egeo, sono arrivata nella
piccola isola greca di Nera, alle 3.30 circa nella fredda mattina del 3
ottobre 2015. C’erano molti pescatori locali che ci hanno aiutato dopo
che la barca ha attraccato. Volevano prendere il motore della barca, che
per loro era prezioso. È stato un sollievo incredibile vedere i nostri
piedi toccare di nuovo terra. Abbiamo deciso di riposarci in una
stanzetta vicino alla spiaggia. Non c’era abbastanza spazio per tutti,
quindi solo le donne e i bambini sono stati dentro. Ho usato la mia
borsa come cuscino e la mia giacca come coperta, ma era così freddo che
non riuscivo a chiudere gli occhi. 

Quando c’è stata abbastanza luce,
siamo andati a piedi verso la stazione di polizia locale. Distava circa
due miglia e mezzo.


Quella notte sono arrivate molte barche sull’isola. Centinaia di
persone stavano in piedi in fila aspettando il loro turno di essere
registrati per poter prendere un’altra barca per l’isola principale di
Kos. A Nera, quando è venuto il mio turno di entrare nell’ufficio, mi
hanno scritto il numero ‘17’ sulla mano. Non dimenticherò mai il giorno
in cui sono diventata soltanto un dannato numero su una lunga, fredda
lista. Quanto è vergognoso per l’umanità che così tante persone
diventino meno che umane in quel singolo momento impotente. Ho fatto
tutte le procedure meglio che potevo e mi sono diretta verso Kos, dove
le autorità ci aspettavano con un documento con sopra tutti i nostri
nomi. Quel documento ci permetteva di prendere una nave che andava ad
Atene. 

È stato un viaggio di dodici ore. Sono riuscita a arrivare ad
Atene la mattina dopo, mi sono separata dalla famiglia dell’amico di mio
marito e ho incontrato un amico greco che mi ha aiutato a prendere un
autobus per il confine con la Macedonia. Erano le 11 di sera.

Sono arrivata al confine alle 6 di mattina. Ho avuto una piccola
discussione con una guarda di sicurezza al confine perché non si
comportava in modo giusto. Alcune persone aspettavano da tanto tempo, ma
lui faceva entrare quelli i nuovi arrivati prima di loro. “Sembri
nervosa. Se vuoi, puoi tornare nel tuo paese e starci,” mi ha detto. Non
sarei rimasta in silenzio se un amico non mi avesse calmata. Essere un
rifugiato o una vittima di guerra non vuol dire che io debba stare zitta
quando vengo trattata male. Non sono scappata dalla Siria per avere il
denaro o i benefici economici dell’Europa. Sono scappata perché il mondo
intero è diventato improvvisamente e deliberatamente cieco, sordo e
muto verso la tragedia umana della Siria.



Abbiamo pagato 25 euro (27 dollari) ognuno per salire su un vecchio
mucchio di immondizia che loro chiamavano treno. Non ci sono parole per
descrivere lo sporco e la puzza terribile. Poi, quando tutti si sono
ammassati dentro, si è mosso come se camminasse sulle uova. È così che
diciamo in Siria riguardo per indicare le cose lente. Ma finalmente ero
sul confine serbo. È stato allora che ho iniziato a desiderare di non
aver mai iniziato questo viaggio. Ho avuto la peggior esperienza dopo
aver camminato per un lungo tragitto, circa quattro miglia, verso la
prima città dove era presente il centro per registrarsi. Non riesco a
ricordare il nome della città. Ero così stanca. Ma vorrei saperlo per
poter dire al mondo quanto fosse brutto là. 

Doveva essere un posto dove
la gente potesse riposarsi un po’. Ma i rifugiati stavano fuori nelle
strade ed era permesso loro di entrare soltanto per pochi minuti per
mettere i loro dati sui documenti e diventare di nuovo un numero. Era
uno shock vedere migliaia di persone aspettare e spingersi, e quanto
tutti fossero trattati male dalla polizia serba. È un’esperienza che non
vorresti mai vivere a meno che tu non sia davvero disperato. Alcune
persone che ho incontrato là hanno detto che dormivano sulla strada da
giorni mentre aspettavano quello stupido documento di registrazione.



Non c’è niente di razionale o umano in un viaggio del genere.

Dopo l’attesa disperata, ho conosciuto una giornalista serba. Era una
donna gentile e mi ha aiutato ad entrare più velocemente. È anche
riuscita ad aiutarmi ad avere il permesso di prendere l’autobus per la
Croazia per un paio d’ore, così ho potuto vedere un posto completamente
diverso, dove le persone si comportavano diversamente. Ho visto veri
esseri umani con vera compassione. Erano davvero delle brave persone. Mi
è stato dato del tè caldo e ho potuto riposarmi un po’. Quello stesso
giorno ho preso il treno per l’Ungheria. Su quel treno, finalmente sono
riuscita a dormire un po’.



In Ungheria non ho visto nulla dato che sono arrivata di notte e sono
salita subito sul treno. Ma ai confini con la Croazia ho visto le nuove
recinzioni, che sarebbero state chiuse soltanto una settimana dopo il
mio arrivo in Germania. Un’altra porta chiusa in faccia ai rifugiati.
Dopo qualche ora ero a Vienna, in Austria. Ho passato una notte in un
centro sportivo che era stato trasformato in uno spazio per i rifugiati.
Quella notte ho dormito come se non avessi mai dormito prima, anche se
era uno spazio aperto dove tutti potevano vedermi.



La mattina dopo sono andata nella stazione dei treni principale e ho
fatto un biglietto per la Germania. Avevo molta paura di essere presa a
Passau, la città tedesca che è sul confine austriaco. Volevo così tanto
vedere mio marito, che era già in Germania. Durante il viaggio non ho
detto una singola parola in arabo così nessuno avrebbe saputo che ero
una rifugiata. Ho incontrato degli americani sul treno. Erano turisti.
Ho parlato brevemente con loro riguardo al loro viaggio. Abbiamo anche
parlato dei rifugiati. Alla donna non piacevano affatto. Nessuno dei due
sapeva che fossi io stessa una rifugiata fino a che non siamo arrivati
al confine. 

Ho visto la polizia tedesca che aspettava di salire sul
treno. Ho finto di dormire. Ma potevo sentire quello che succedeva. Ho
tenuto gli occhi chiusi per circa mezz’ora, un momento che mi è sembrato
infinito. Migranti e rifugiati sono stati presi e portati fuori dal
treno. Quanto a me, forse la mia abilità di parlare un po’ di inglese e
il fatto che non indossassi l’hijab – la maggior parte delle altre donne
lo indossava – mi hanno aiutato a non essere notata.



Dopo che le porte del treno si sono chiuse, ho tirato un sospiro di
sollievo. Ho aperto gli occhi dal finto sonno per vedere dal finestrino
centinaia di bambini, donne e uomini – vecchi e giovani – che stavano in
fila con la polizia che li circondava. Quella è stata la mia prima
esperienza in Germania. Ero felice di essere riuscita a passare sana e
salva, ma non è stato bello vedere quelle persone impotenti là fuori
come se fossero criminali, specialmente quelli che non volevano rimanere
in Germania. Mi sono messa nei loro panni. Fa male quando vedi che gli
altri ti guardano in un certo modo, dando per scontato che sei venuto a
causa della povertà. È questo quello che la maggior parte della gente
pensa alla parola “rifugiato”.

Zozan è la moglie di Yilmaz. Ora vive in una cittadina di circa
5,000 people nel nord della Germania, vicino all’Olanda. Recentemente le
è stato dato un appuntamento per avere un colloquio con l’ufficio
immigrazione. Poi dovrà aspettare l’approvazione per avere il suo
permesso di soggiorno che vale tre anni. Allora potrà trasferirsi a
Berlino, dove si riunirà a Yilmaz.

FONTE: PRI