Dal circo di Cagliari ai bambini di strada del Nicaragua. Le quattro vite di Zelinda Roccia
di Valeria Gandus, 17 giugno 2016.
Il primo aiuto glielo offrì padre Ernesto Balducci. Pochi soldi che le avrebbero permesso di aprire un comedor, cioè un posto dove dar da mangiare ai quinchos, i bambini di strada.
E il primo spazio glielo prestò, per poche ore al giorno, un altro prete, don Jesús Arguete:
una stanza al primo piano di un fatiscente palazzo di Managua; le scale
erano crollate e ci si poteva arrivare solo attaccandosi a una corda.
Cominciò così, 25 anni fa, la seconda (ma anche terza o quarta) vita di Zelinda Roccia: cagliaritana, premio Terzani 2013 per le Culture di Pace, fondatrice e anima del progetto Los Quinchos, un villaggio che in Nicaragua accoglie, accudisce, accompagna nello studio e nella ricerca di un lavoro, gli ultimi di quella terra, i bambini
che nessuno vuole. Le prime due vite Zelinda le aveva vissute come
circense (in realtà lo era suo padre), artista di teatro, insegnante di
Lettere. E queste vite, soprattutto l’ultima, le racconta Francesca Caminoli in “Perché non mi dai un bacio?” (Jaca book), un reportage dall’interno, perché da anni l’autrice, ex giornalista e scrittrice di rara sensibilità (Il giorno Di Bajram, La neve di Ahmed, La guerra di Boubacar) passa lunghi periodo come volontaria a Los Quinchos.
Quanti bambini sono passati, in questi 25 anni,
sotto lo sguardo materno ma anche severo di Zelinda? Quanti ce l’hanno
fatta e quanti si sono persi? “Tantissimi, forse diecimila” dice
Zelinda. “Me li ricordo uno per uno, ricordo i loro volti, le loro storie. Tutte difficile, dure, alcune quasi inenarrabili”. Come quelle di Francisco el chelito, Sonrisa, il bellissimo Piri. “Quante possibilità abbiamo dato al Piri, quante volte lo abbiamo ripreso. Ma la sua vita è la strada,
la strada chiama, attira ti fa sentire libero. Ora è perso in strada,
la mente distrutta dalla droga”. Ma ci sono anche Chepe, che adesso è
medico, e da bambino lavorava come schiavo, vero schiavo, in una fattoria. E Tata, che lavora al progetto gemello dei Quinchos, le Yahoskas, riservato alle bambine.
Ha fatto tutto da sola, Zelinda, spinta da un radicato e irrefrenabile desiderio di aiutare i bambini meno fortunati e dall’incontro fortuito con tre fratellini che dormivano nella ruota di un camion a Managua. “Perché non mi dai un bacio?” le chiese uno di loro, il più piccolo, mentre lo portava in braccio a prendere un gelato. Era il 1986. Zelinda, reduce da un lungo viaggio sulle tracce dei sandinisti, sarebbe rientrata in Italia
il giorno dopo. Promise ai tre fratellini che sarebbe tornata. E così
fece, cinque anni dopo. Ma naturalmente non li ritrovò. Ne incontrò,
invece, molti altri: abbandonati, affamati, schiavi della pega, la colla che annusavano aspirandone i fumi stordenti e tossici.
Dopo quella prima stanza a cui si accedeva con la corda, ce ne sono state altre, poverissime, fuori Managua, per togliere i bimbi dalla strada. E poi, grazie a qualche incontro fortunato e alla vendita di tutto quanto Zelinda possedeva in Italia, una finca, una specie di fattoria. Oggi il progetto Los Quinchos,
un’associazione laica sostenuta da comitati di base italiani e
organizzazioni di diversi Paesi, raccoglie 250 bambini e bambine divisi
in vari centri.
Zelinda non ha mai voluto finanziamenti dalla cooperazione internazionale. “Ho sempre percorso la strada dei piccoli passi, dei microprogetti
(…) penso che i grandi finanziamenti delle grandi Ong siano pericolosi”
dice, perché “obbligano a seguire la linea di chi te li dà, modificano e
snaturano il tuo progetto (…) se ne infischiano della realtà di dove questi soldi vanno a finire”. La cooperazione di questo tipo, chiosa Zelinda, “fa stare bene chi ci lavora, non quelli per cui lavorano”.
Quella inventata da Zelinda è invece una comunità che assomiglia a una famiglia: una famiglia monumentale, dove i meccanismi, però, sono gli stessi. “I figli crescono, qualcuno va tranquillo per la sua strada, altri si fanno ribelli, contestano, ti rinnegano scappano. Alcuni tornano, altri no. Alcuni trovano un lavoro,
altri si laureano, altri tornano in strada e diventano delinquenti.
Gioie e dolori come in ogni grande famiglia. Molto allargata, certo, e
un po’ strana forse. Con tantissimi fratelli e sorelle, zie e zii che sono gli educatori, i promotori, le cuoche, le donne che aiutano i ragazzi a lavare le loro cose, i volontari di tanti paesi e di tante età diverse”.
Per chi volesse dare una mano, o anche solo saperne di più: www.losquinchos.it
FONTE: Il fatto quotidiano