Welcome to Bosnatanamo. Detenzione migratoria in Bosnia e Erzegovina
Dopo
aver scontato, senza nessuna accusa formale, sette anni nel centro di
detenzione bosniaco di Lukavica, Imad Al-Husin, noto alla cronaca
come Abu Hamza, è stato rilasciato lo scorso 18 febbraio delle
autorità.
L’analisi che l’antropologo americano Darryl Li ha
condotto, proprio a partire dal caso dell’ex mujahidin,
si muove tra le politiche di securizzazione dei confini, la lotta
internazionale al terrorismo e la gestione del fenomeno migratorio
nei balcani occidentali.
Nei mesi recenti, la lunga crisi
migratoria in Europa ha raggiunto nuovi livelli di urgenza, in modo
particolare per ciò che riguarda la tratta lungo i Balcani, da tempo
messa in ombra dai disastri che avvengono nel Mar Mediterraneo.
La
corsa iniziata dall’Ungheria per chiudere i propri confini ha
recentemente indotto Croazia e Serbia a scambiarsi accuse sulla
responsabilità di gestione del flusso di persone, a tal punto da
iniziare una vera e propria guerra doganale.
Se il tragitto
intrapreso fino ad oggi dai rifugiati ha largamente aggirato la
vicina Bosnia-Erzegovina, una definitiva chiusura dei confini
ungheresi sud occidentali potrebbe improvvisamente far diventare lo
stato bosniaco paese di transito di una nuova tratta che,
attraversando poi la Croazia, arriverebbe così nella vicina
Slovenia.
Al di là dei tentativi ufficiali atti a proiettare una
sensazione di capacità di reazione immediata, i segnali di
confusione del governo bosniaco sembrano evidenti: il ministro della
sicurezza Dragan Mektić ha dichiarato infatti che il paese può
tollerare solamente 5,000 rifugiati nel proprio territorio prima di
chiudere del tutto i confini.
In Bosnia, negli anni recenti, tutte
le questioni legate a migrazione, securizzazione dei confini e
Islamofobia, hanno giocato un ruolo specifico anche sullo sfondo
della crisi siriana. La colonna portante del regime di controllo
migratorio bosniaco, ad oggi, è costituita dal centro di detenzione
per migranti di Lukavica, quartiere situato in un area boschiva al di
là dello stadio di calcio nella periferia di Sarajevo (un altro sito
apposito per richiedenti asilo è stato più recentemente aperto a
Delijaš).
Ho visitato per la prima volta il
centro di Lukavica nel 2009, quando era ancora in costruzione.
La
struttura oggi può ospitare 120 detenuti e, secondo quanto
l’autorità di vigilanza puntualmente tiene ad assicurare, tutto
funziona in base agli “standard internazionali”.
All’entrata
principale la bandiera della Bosnia Erzegovina sventola accanto a
quella dell’Unione Europea. La presenza di quest’ultima e la
concomitante assenza di quella americana, sono emblematici dei due
diversi programmi politici, entrambi esterni al governo di Sarajevo,
sul controllo dei confini e sul regime migratorio bosniaco. Il primo
è costituito dal desiderio dell’Unione Europea di esternalizzare
ed esportare le politiche di controllo migratorio agli stati
periferici
che stanno cercando un futuro accesso nell’unione. Il secondo, più
in ombra, è dato dal programma americano di guerra globale al
terrorismo, il Global War on
Terror (GWOT), basato su una
complessa rete transnazionale di pratiche detentive esternalizzate.
I
due programmi emergono più nettamente se analizziamo la storia del
prigioniero Imad al-Husin.
Arrestato sette anni fa (6
ottobre 2008), Imad al-Husin è l’uomo che per primo è entrato a
Lukavica e più a lungo vi è rimasto detenuto. Privato della propria
libertà senza una chiara base legale e malgrado la sua vittoria di
fronte al Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2012, è lui che
ha dato il nome Bosnatanamo
alla struttura, anche per l’uso estensivo di prove segrete per
giustificare i casi di detenzione.
Al-Husin, meglio noto come Abu Hamza,
è nato in Siria ed oggi è la faccia pubblica dei mujahidin,
volontari islamici stranieri – per lo più arabi – che durante il
conflitto bosniaco 1992-1995 combatterono a fianco delle forze
governative musulmane di Bosnia. Mentre molti mujahidin
lasciarono la Bosnia dopo la guerra, alcune dozzine, tra cui Abu
Hamza, rimasero nel paese, sposati con donne locali e successivamente
naturalizzati (Abu Hamza, cosa insolita, era già arrivato nel
territorio negli anni Ottanta per studiare nella Jugoslavia
socialista). Negli anni che ha trascorso in territorio jugoslavo, Abu
Hamza non è mai stato accusato di nessun crimine.
Dalla fine della guerra balcanica, gli
Stati Uniti ed i suoi alleati hanno avuto una certa ansia nel
liberare il paese dai così detti foreign
fighters, prendendo di mira
non solo ex combattenti, ma anche operatori umanitari arabi.
Come
nelle attuali discussioni sul fenomeno dei foreign
fighters presenti in Siria e
in Iraq, è diffusa la tendenza a confondere a priori la
partecipazione straniera nei conflitti armati con il commettere
crimini di guerra o atti di terrorismo (Abu Hamza, come molti siriani
di fede islamica della sua generazione, è critico nei confronti del
auto-dichiarato Stato Islamico).
Subito dopo gli attacchi dell’11
settembre, Washington fece pressione nei confronti delle autorità
bosniache per farsi consegnare sei algerini, che furono così
trasferiti a Guantanamo sebbene la corte di Sarajevo avesse
precedentemente ordinato il loro rilascio.
Uno di questi uomini è
successivamente diventato il personaggio principale di un caso
epocale della Corte Suprema degli Stati Uniti, il caso Boumediene
vs Bush, prima di essere
rilasciati anni dopo senza essere mai stati accusati di alcun
crimine. Il trattamento palesemente extralegale dei sei algerini ha
suscitato critiche diffuse, inclusa quella da parte della Camera per
i Diritti Umani di Bosnia; da quel momento, gli USA hanno cercato di
espellere la popolazione araba che considerava sospetta cercando
cambiare le leggi bosniache piuttosto che aggirare il blocco che
queste costituivano.
Numerose sono le comunicazioni pubblicate da
Wikileaks che descrivono il desiderio dell’ambasciata statunitense
di espellere, in particolare, Abu Hamza.
Allo stesso tempo, lo stato
bosniaco si è mostrato disposto nel soddisfare le richieste
dell’Unione Europea per un’espansione del regime di controllo
migratorio così da poter richiedere la fine delle restrizioni del
visto per i cittadini bosniaci diretti in zona Schengen.
Come risultato, la Bosnia ha dato
mandato ad una commissione speciale per revocare la naturalizzazione
concessa dopo l’indipendenza, togliendo la cittadinanza a centinaia
di cittadini, per la maggior parte nati in paesi prevalentemente
musulmani. Diversamente dal recente sforzo legislativo in Gran
Bretagna e Australia, teso a revocare il diritto di cittadinanza, la
commissione bosniaca non ha dovuto stabilire nessun nesso di
illegalità né di atti sospetti: al contrario, questa poteva essere
revocata per qualsiasi requisito procedurale o formale scorretto.
Oltre alla natura sommaria delle decisioni prese dalla Commissione di
Cittadinanza ed il numero limitato di uso del diritto di appello, è
da notare come, sebbene questa fosse un ente governativo, tre dei
nove membri fossero stranieri, incluso un ufficiale dell’esercito
statunitense.
La legge bosniaca preclude la
possibilità di denazionalizzazione
qualora questa porti ad una condizione di apolidia. Ma questo non
garantisce una grossa consolazione, visto che l’obiettivo degli USA
non era solo quello di rimuovere gli arabi sospetti dalla Bosnia, ma
quello di trasferirli sotto custodia di regimi autoritari del Medio
Oriente.
Come sosterrò in un libro di prossima uscita, questa rete
transnazionale di pratiche carcerarie ci costringe a rivedere le
teorie stato-centrate, eccezione di sovranità e di cosmopolitismo,
al fine di rivolgere l’analisi alle pratiche di circolazione
carceraria.
Più in generale, l’attuale crisi creata dalla gestione
dei rifugiati mostra come il controllo delle frontiere abbia a che
fare non solo con le misure per tenere fuori certe persone dai propri
confini, ma anche con i luoghi dove destinarle.
Parallelamente alla campagna di
denazionalizzazione,
la Bosnia ha drammaticamente esteso il proprio regime di detenzione
migratorio con nuovi provvedimenti legislativi, autorizzando di fatto
la detenzione a tempo indefinito per i non-cittadini considerati una
minaccia per la sicurezza nazionale. Lo stato bosniaco ha anche
creato un corpo di guardia di confine e agenzie di polizia migratoria
finanziate, allenate ed equipaggiate da Stati Uniti e Unione Europea.
Per inciso, Bruxelles ha donato alla Bosnia-Erzegovina 1,2 milioni di
euro per la costruzione della struttura di Lukavica. Questa ha avuto
uno sviluppo particolarmente sorprendente.
L’ampia letteratura sulla Bosnia
post-conflitto si è largamente focalizzata su come le divisioni tra
bosgnacchi, serbi e croati – specialmente su temi sensibili come i
crimini di guerra – abbiano indebolito lo sviluppo di uno stato
centralizzato in favore di entità (amministrative e nazionali)
basate sul principio etnico. Risulta interessante vedere come sul
tema della detenzione migratoria le élites nazionaliste abbiamo
trovato un notevole grado d’accordo: dal 2008 la Bosnia ha un
centro di detenzione migratoria, ma vent’anni dopo la fine del
conflitto il governo centrale non ha ancora una prigione propria.
Nell’ottobre del 2008, davanti alla
Corte Costituzionale di Bosnia ed Erzegovina, Abu Hamza perse
l’appello contro il processo di denazionalizzazione
nei suoi confronti.
Due anni più tardi venne poi definito una
minaccia nei confronti della sicurezza nazionale e trasferito a
Lukavica.
Nei mesi successivi, infine, fu richiesto un ordine di
deportazione in Siria. É così che un centro di immigrazione
costruito con la giustificazione di una permanenza temporanea per i
migranti che attraversano il confine, è stato utilizzato
principalmente per detenere a tempo indeterminato residenti di lungo
termine con legami familiari nel paese.
Una dozzina di residenti bosniaci di
origine araba sono stati mandati a Lukavica, detenuti non si sa dove
per mesi e mesi. Alcuni erano stati compagni di Abu Hamza durante la
guerra, altri non avevano mai combattuto. Molti hanno utilizzato lo
strumento dello sciopero della fame.
Li ho visitati personalmente
diverse volte tra il 2009 ed il 2012.
Ho assistito alle loro lotte
contro il sistema giudiziario bosniaco, così come ho visto la
frustrazione che hanno provato nel vedere la totale mancanza di prove
nei loro confronti, o la loro paura di essere separati dalle proprie
famiglie bosniache, e la persistente incertezza sul proprio futuro.
Recentemente, in modo graduale, altri migranti sorpresi
nell’oltrepassare la frontiera hanno iniziato ad arrivare nella
struttura e molti provengono dal Medio Oriente.
La primavera araba sembra aver inoltre
garantito al governo bosniaco un alibi nel facilitare la deportazione
verso la Tunisia e l’Egitto di alcuni dei miei intervistati,
argomentando che non ci sono più ragioni fondate per dubitare del
rispetto dei diritti umani in questi paesi.
In modo singolare è
inoltre interessante vedere come la Corte europea dei diritti
dell’uomo nel 2012 abbia perfino permesso il rimpatrio forzato di
un iracheno argomentando che la questione dei diritti umani a Kirkuk,
sua città natale, aveva fatto notevoli progressi, a tal punto da
garantirne un ritorno pacifico.
Oggi Kirkuk si trova in pieno fronte
di guerra contro l’Isis.
Nel 2012 Abu Hamza è stato capace di
persuadere la corte di Strasburgo che non sarebbe dovuto tornare in
Siria.
La stessa corte, successivamente, ha inoltre annullato la
disposizione di legge che permetteva la detenzione di non-cittadini
per motivi di sicurezza nazionale, lasciando le autorità bosniache
senza nessuna base legale per trattenerlo in detenzione. Invece di
proseguire con il rilascio, o di accusarlo di un nuovo crimine,
queste hanno espresso la volontà di deportarlo in un paese terzo. A
tre anni di distanza, nessun paese si è messo a disposizione
nell’accettare Abu Hamza come prigioniero, un lasso di tempo che si
è andato a sommare alla stessa detenzione a tempo indefinito. Molte
delle prove rimangono tutt’ora segrete, sia per lui sia per i suoi
avvocati, malgrado gli sforzi fatti da familiari e amici per non far
scomparire la sua storia dagli occhi pubblici.
Intrappolato dietro le sbarre di
Lukavica fin dal momento in cui il centro è stato operativo, Abu
Hamza è oggi una presenza fissa della struttura.
Quando l’ho visto
nel 2012, mi disse che alcuni migranti arrivati da poco avevano
iniziato a chiamarlo ‘shaykh’ (sceicco in lingua araba),
soprattutto per la sua attenta e coltivata figura che fa riferimento
alla pietà islamica (barba lunga, tunica jalabiya).
Ottimo
conoscitore dell’arabo e della lingua locale, Abu Hamza è stato
spesso in grado di fare da interprete e mediatore tra i detenuti e le
autorità della prigione.
Con il crescere della crisi migratoria, Abu
Hamza si ritroverà nel centro di Lukavica, con sempre più compagni
di detenzione.
Malgrado Stati Uniti, Europa e la
politica bosniaca lo raffigurino come minaccia straniera al paese,
all’interno della struttura Abu Hamza è diventato una sorta di
ambasciatore accidentale per il paese, un ambasciatore che da il
benvenuto e mantiene i contatti tra i nuovi arrivati.
E mentre la
detenzione di Abu Hamza vìola palesemente una sentenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, essa va compresa come il risultato
delle politiche stesse dell’Unione Europea, e degli Stati Uniti.
[La traduzione è a cura di Michele
Bianchi. La versione
originale in Border
Criminologies, University of
Oxford].