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Israele e Palestina visti da un’umanista – Un articolo di Johanna Heuveling


Carissime lettrici, carissimi lettori,

qui di seguito vorrei presentarvi la nostra traduzione di un articolo pubblicato dalla pacifista ed umanista Johanna Heuveling su Israele e Palestina sul portale Pressenza.

La prospettiva assunta dall’autrice ci piace moltissimo in quanto riesce a cogliere con empatia i due punti di vista: quello palestinese e quello israeliano e auspica di poter promuovere la conciliazione tra questi due gruppi vicini e nemici.

Distinti saluti

Dr. phil. Milena Rampoldi – ProMosaik .e.V.  



Anche i
visitatori tedeschi hanno lasciato le loro tracce indelebili sul muro tra
Israele e la Cisgiordania (foto di Johanna Heuveling) 

A scuola
abbiamo sempre imparato che si ottengono solo dei bei voti in un saggio se si
rappresenta cocciutamente un solo punto di vista, opponendosi a tutti gli altri
punti di vista contrari. La mia inclinazione originaria di voler considerare
sempre le cose da tutte le prospettive, di sviluppare la comprensione per ogni
atteggiamento e di far valere diverse verità, veniva sempre punita con dei
brutti voti.
Giunta in
Israele-Palestina, mi accorgo di aver imparato una verità sbagliata. Infatti sono
troppe le persone ad avere il loro punto di vista scolpito nella pietra e
secondo cui tutti gli altri – ebrei, arabi, israeliani, palestinesi – avrebbero
torto, apparterrebbero alla cultura sbagliata, sarebbero parte di una religione
e tradizione violenta e sarebbero dunque opposti a noi stessi in modo
inconciliabile. “Il minimo assoluto che sarebbero disposti a darci è
lontanissimo dal massimo che saremo disposti a dare noi”.
Da umanista
comunque ho imparato che cercare di comprendere gli altri costituisce la base
per costruire un rapporto umano e riconciliarsi con tutte le cose orribili
commesse da entrambe le parti. Il colloquio personale costituisce la forma
basilare per permettere un avvicinamento tra le persone, allontanate dai
paroloni dei politici e dei capi, dai grandi titoli dei media o da prediche
colme di odio.
“Non posso conoscere
gli israeliani”
Proprio la
possibilità di conoscersi negli ultimi anni e decenni è stata resa sempre più
difficile. “Non posso conoscere gli israeliani”, mi dice Rana di Betlemme.
“Loro qui non vengono ed io non posso andare di là.”
Rana presso il
muro di Betlemme
Betlemme è ad
un passo da Gerusalemme, ma è separata da un muro invalicabile per gli abitanti
di Betlemme, costruito tra la Cisgiordania e Israele e da un check point che
possono attraversare solo quei pochi che possiedono un’autorizzazione speciale.
Il padre di Rana ha lavorato a Gerusalemme come cuoco per una mezza vita. Dopo
la chiusura della frontiera non ha ricevuto più l’autorizzazione di fare la
spola tra Gerusalemme e Betlemme e di conseguenza rimase per anni senza un
lavoro fisso. Gli israeliani giungono a Betlemme solo come soldati. “Agli
israeliani il governo inculca che venire qui sarebbe pericoloso. Invece non
hanno nulla da temere”, afferma Rana. 
Check point tra
Betlemme e Gerusalemme
Questo muro di
Betlemme, costruito molto rapidamente nel 2005, come berlinese mi ha colpito
particolarmente. Rana mi dice che non si era neppure accorta dei lavori di
costruzione. “Era un progetto previsto da tempo e fu un’azione alquanto
rapida”. La maggior parte degli israeliani, persino quelli di sinistra, come ad
esempio lo scrittore Amos Oz, membro di Peace Now, sono a favore di questi
impianti di sbarramento perché hanno paura. 
Dei volontari
pacifisti internazionali cercano di mitigare le conseguenze peggiori
Il problema
principale consiste nel fatto che lo sbarramento non segue la linea verde – la
linea di confine tra Israele e la Cisgiordania, pattuita in occasione
dell’armistizio del 1949 – ma in parte penetra profondamente nel territorio
palestinese, evidenziando a volte un percorso del tutto intrecciato. A Betlemme
separa il settore intorno al santuario ebraico della tomba di Rachele dal resto
della città, rendendo la vecchia strada commerciale principale una zona
fantasma. Circonda case ai cui abitanti è vietato alzare le tapparelle o andare
sul tetto visto che le guardie israeliane temono i tiratori scelti. Due giorni
prima della mia visita un diciottenne è stato fucilato perché di mattina si
trovava sul tetto nei pressi del muro.

Torre di
controllo con tracce di ordigni incendiari e colorati 
Altre case sono
state demolite perché si diceva fossero troppo vicine al muro. Alcuni campi non
si potevano più raggiungere e dunque neppure coltivare. “Vige una legge secondo
cui un terreno che non viene utilizzato per alcuni anni passa allo stato. Bloccando
l’accesso ai campi, gli israeliani si appropriano la terra”, mi dice Rana. 
Come sul Muro
di Berlino: un senso amaro dell’umorismo
La piccola
Rana, alquanto agile, si impegna nel contesto di progetti di non-violenza al
sostegno di contadini e famiglie colpiti da tali misure. Organizza gruppi di
volontari internazionali che aiutano a raccogliere le olive in un campo di questo
tipo e a riscostruire le case demolite. “I sostenitori internazionali ci aiutano
a raggiungere i campi e a terminare le costruzioni grezze delle case.”
Una casa,
circondata dal muro su ben tre lati e i cui abitanti del secondo piano hanno il
divieto di alzare le saracinesche. 
Betlemme si impegna
molto a ridurre al minimo le conseguenze del muro sull’economica della
cittadina che tanto dipende dal turismo. “Finché viviamo in pace, stiamo bene”,
dice Rana. In tempi di pace infatti vengono i turisti. La città sostiene i
proprietari dei negozi del centro, affinché possano tenere aperti i loro
negozi. Da quando esiste il muro, si organizza anche una maratona annuale detta
“Right to Movement”, intesa come movimento di protesta.
Percorso del
muro a Betlemme (linea nera) 
Quasi apolide
La situazione
della Cisgiordania continua ad essere alquanto complicata. Ci sono tre zone che
permettono diversi livelli di autonomia al governo palestinese, ma nella
maggior parte della Cisgiordania l’esercito israeliano continua ad esercitare
il controllo di sicurezza. Le zone sono intrecciate come un mosaico e a volte
anche i residenti non sanno da che parte si trovano. Gli israeliani non possono
recarsi nella zona di autonomia totale. Non sono i palestinesi a vietarlo, ma
il governo israeliano che dice loro di farlo per motivi di sicurezza. Quando
Rana desidera viaggiare, deve recarsi all’aeroporto di Amman e l’autorità
palestinese le rilascia un documento da viaggio che comunque non ha la validità
di un passaporto. È praticamente apolide.
Rana spera che
la Palestina rimanga indipendente. “In questo modo molto cambierà verso il
meglio”. Non ha paura che vadano al potere dei musulmani fondamentalisti che
potrebbero opprimerla come cristiana? “No, viviamo in pace con i musulmani”.
Molti cristiani se ne vanno, ma non per paura dei loro vicini, ma per colpa
delle limitazioni di movimento. Rana ci racconta anche dello Stato Islamico che
non si trova poi tanto lontano. E si sa quello che succede ai cristiani nello
Stato Islamico.
Prigionieri
della loro paura e rinchiusi nel proprio paese
Il secondo
grosso problema, oltre al percorso difficoltoso del muro, sono gli insediamenti
di cittadini israeliani nel territorio della Cisgiordania, resi possibili
solamente con il massiccio sostegno del governo israeliano e la protezione
dell’esercito. Dalla casa di Rana si vede Har Homa, un insediamento costruito
come una fortezza sulla montagna di fronte. Il consiglio di sicurezza dell’ONU aveva
dibattuto quest’insediamento. Tutti i paesi membri si erano espressi contro la
costruzione, ma gli USA sono ricorsi al loro diritto di veto.
L’insediamento controverso
di Har Homa visto dalla casa di Rana.
Chiedo a Rana
di avvicinarci un po’, ma scuote la testa in modo impetuoso. “Non lo
permetterebbero”. “Che cosa succederebbe? Vedo che c’è un lungo percorso senza
steccato e senza cartelli. “Ci rimanderebbero indietro”. Ma a chi appartiene
questa terra? Perché possono semplicemente cacciarci via? “Questo non conta,
verrebbero comunque. Quando si tratta di sicurezza, fanno tutto.” Mi chiedo per
quale motivo qualcuno costruisce un insediamento talmente isolato nel mezzo di
un territorio che considera nemico e pericoloso. “Alla fine sono gli israeliani
che si rinchiudono da soli. Alla fine mi fanno pena. Sono prigionieri della
loro paura e chiusi dentro nel proprio paese”, dice Rana.
Una storia
costante di espulsione, espropriazione e massacri
Rana mi mostra
anche i campi profughi di Betlemme che nel frattempo – dopo ben 70 anni di
espulsione – si sono trasformati in veri e propri quartieri che appaiono più
scalcinati e stretti dei quartieri normali. Ovunque si percepisce la rabbia nei
confronti dell’occupazione israeliana e delle espropriazioni del passato. Ci sono
liste dei bambini uccisi a Gaza scritte sui muri delle case, sul portone si
vede una grande chiave – il simbolo delle espropriazioni.
Entrata nel
campo profughi Aida: la chiave come simbolo dell’espropriazione
I campi più
vecchi ci sono dalla guerra del 1948, scoppiata tra arabi ed ebrei il giorno
della proclamazione dello Stato di Israele da parte di Ben Gurion. A quei tempi
gli arabi non volevano accettare la soluzione dell’ONU che proponeva due stati,
incitando di “gettare gli ebrei in mare” o di “farli affogare nel loro sangue”.
Gli ebrei che erano appena sfuggiti dall’olocausto, d’altra parte, non volevano
farsi nuovamente uccidere senza difesa e decisero di combattere per la terra
che era finalmente la loro e che consideravano il loro ultimo rifugio. 
Lista dei
bambini uccisi a Gaza la scorsa estate
Entrambi le
parti hanno subito dei terribili massacri, gli ebrei furono scacciati da molti
insediamenti e uccisi e così anche gli arabi che ora vivono nell’attuale
territorio israeliano. Molti abbandonarono i loro averi e fuggirono. Molti fino
ad oggi non smettono di sperare di poter ritornare nelle vecchie case sul lato
israeliano e trasmettono le chiavi da generazione a generazione, e così anche
l’ira e il desiderio di vendicarsi. Per comprendere il massacro della guerra
del 1948, è utile la lettura di Amos Oz che nella sua opera “Una storia di
amore e di tenebra” scrive:
Nella vita di
una singola persona e nella vita di interi popoli scoppiano i conflitti
peggiori, spesso tra due popoli perseguitati. È un desiderio sentimentale
credere nella solidarietà tra perseguitati ed oppressi per combattere il loro
orrendo nemico comune.[…] Spesso l’uno nell’altro non vede un compagno avente
lo stesso destino, ma la brutta faccia di un comune persecutore.
Forse è anche
il caso nel conflitto quasi centenario tra arabi ed ebrei: l’Europa che
oppresse gli arabi con l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento e
l’oppressione, è la stessa Europa che perseguitò e oppresse gli ebrei e poi
lasciò fare i tedeschi o persino li sostenne quando iniziarono a deportare gli
ebrei da intere regioni del continente per sterminarli. Ma gli arabi in noi non
vedono un mucchio mezzo isterico di sopravvissuti, ma una nuova propaggine
arrogante dell’Europa tecnologicamente superiore, sfruttatrice e colonialista
che con astuzia – questa volta vestita da sionista – è ritornata in Oriente per
sfruttarlo, espropriarlo e opprimerlo nuovamente. E noi in loro non vediamo le vittime
come noi, i fratelli sofferenti, ma i cosacchi che vogliono sterminare gli
ebrei, degli antisemiti assetati di sangue, dei nazisti travestiti, come se
fossero i nostri persecutori europei riapparsi qui in Israele, dopo essersi messi
un kefije intorno alla testa e esseri lasciati crescere i baffi, rimanendo comunque
assetati di sangue ebreo e desiderosi di tagliarci la gola per puro
divertimento.
Targhetta nel
centro storico di Gerusalemme, che testimonia del passato terroristico del
predecessore dell’esercito israeliano.
Miscela tra
generosità orientale e pensiero liberale
Dopo il mio
ritorno nella parte israeliana del paese ho dei colloqui intensi. Gli
israeliani come li ho conosciuti sono aperti, pronti al dialogo, diretti e dicono
la loro. La maggior parte ha una buona cultura generale ed è ben informata. Noto
che si tratta di una società molto vivace, aperta e libera, in cui la gente usa
ha rapporti dinamici con gli altri. In realtà si tratta di una buona miscela
tra generosità orientale e pensiero liberale. Comunque non ho parlato con gli
ebrei ortodossi.
Giovani artisti
di strada a Zikhron
Si tratta di
una società che si è impegnata moltissimo per l’integrazione. Infatti sono
giunti in Israele ebrei da tutti i continenti, aggiungendosi agli ebrei arabi
che già vivevano qui. La maggior parte doveva ancora imparare l’ebraico e molti
di loro erano del tutto traumatizzati. 
Appena qui
capisco, quanto devono essere stati pesanti i sensi di colpa di coloro che
hanno sopravvissuto l’olocausto e non sono riusciti a proteggere i loro
familiari, fuggendo senza combattere. E ci deve essere stata una frattura tra
questa generazione di vittime e i loro figli cresciuti in Israele che presero
la decisione di non fuggire mai più senza combattere. Kishon, nei suoi racconti
brevi, parla spesso di una giovane generazione israeliana vitale e decisa che
non capisce i loro genitori che a loro volta non la capiscono. Il filosofo
ebreo Leibovitz rinfaccia ai suoi connazionali di non aver imparato nulla
dall’olocausto. Io penso che abbiano imparato abbastanza. Ma hanno imparato le
cose giuste?
Una misura
preventiva consiste nel servizio militare obbligatorio per tutti i ragazzi e
tutte le ragazze dopo la conclusione della scuola. L’esercito è l’istituzione
più visibile del paese. Soprattutto durante i fine settimana alle stazioni e
nei treni si vedono grandi gruppi di militari in uniforme e con le mitraglie. Questo
panorama per uno straniero più che rassicurare incute insicurezza. Ma la
famiglia che mi ospita dice che non ci sarebbero mai stati problemi con i
militari armati.
Soldati armati
alla stazione di Binyamina
Israele è un
paese per gli ebrei e non per tutti
Purtroppo l’integrazione
non si estende a tutti i gruppi della popolazione. La popolazione araba e
quella ebrea vivono separatamente in villaggi e quartieri propri, con scuole e
scuole dell’infanzia, ecc., separate… Chi vuole questa separazione? “Gli arabi
non accettano ebrei nelle loro città”, mi dice Malcolm, un signore anziano che
in passato aveva lavorato per l’istituto degli studi strategici che tra l’altro
offriva servizi di consulenza all’esercito.
Per cristiani
ed ebrei il servizio militare non è obbligatorio. Il signore che mi ospita mi
dice: “Legalmente ebrei e musulmani sono uguali, ma di fatto non è affatto
così. In verità gli arabi israeliani sono le vere vittime della situazione
attuale, in quanto hanno perso la loro identità e sono isolati. Qui in Israele
vivono bene, grazie alla buona infrastruttura, alle ottime possibilità di
formazione e alla libertà di cui godono e che non avrebbero mai nei paesi
arabi, ma allo stesso tempo qui non verranno mai accettati del tutto. Non
vogliono trasferirsi nei paesi arabi, ma non vogliono neppure combattere contro
i loro fratelli. Il problema è che Israele è uno stato per gli ebrei e non per
tutti.”
Il conflitto
costante ostacola l’integrazione. Finché Israele si trova in una costante
condizione di guerra, gli arabi vengono generalmente sospettati e non possono far
veramente parte della società.
Un amico
israeliano mi racconta di suo figlio. Hanno amici musulmani i cui figli giocano
con i loro figli. Durante i mesi della guerra di Gaza dell’anno scorso anche
nella parte meridionale di Haifa suonavano le sirene visto che i missili da Gaza
diverse molte colpirono una centrale elettrica nelle vicinanze. Si sentivano i
tiri dei missili del sistema di difesa israeliano “iron dom” e i bambini
avevano paura. I genitori spiegarono loro il perché di questa guerra. Dopo il
loro figlio di 10 anni non voleva più giocare con i suoi amici musulmani, e
anche dopo lunghi discorsi non si poteva persuaderlo. “Nulla mostra più chiaramente
la condizione della nostra società in cui persino un bambino con genitori
tolleranti sviluppa tali pregiudizi”.
Far nascere una
prospettiva normale
Anche se il
servizio militare per i singoli ragazzi non sembra facile, praticamente tutti mi
dicono che era un bellissimo periodo in cui hanno stretto amicizie per la vita
e sono diventati adulti.
Per loro la
costante presenza di soldati e di controlli di sicurezza sono una cosa normale.
Ma la guerra, come quella della scorsa estate a Gaza, è una situazione
eccezionale che coinvolge tutti, visto che “tutti hanno un ragazzo o una
ragazza tra i parenti che devono andare a Gaza e dunque si preoccupano”. “Erano
terribili le prime tre settimane, in cui sono entrati a Gaza. Non so come ho
fatto a superare quel periodo,” mi racconta la madre di un ragazzo che sta
facendo il servizio militare. Lui stesso racconta: “Fra poco finiamo il
servizio militare e poi con un paio di amici farò un viaggio per il mondo per
un anno. La maggior parte lo fa. E ci vuole per riacquistare una prospettiva
normale sul mondo dopo il servizio in guerra”.
Ragazzi armati
in treno durante il loro servizio militare
Ma nessuno
mette in dubbio l’esercito o il servizio militare. Tutti sembrano convinti che
sia l’unica possibilità per proteggere Israele dalla distruzione araba. 
Quando racconto
del muro, tutti scrollano le spalle con rammarico. Non lo trovano un
provvedimento bello, ma necessario, se segue la frontiera pattuita. Mi parlano
degli attentatori suicidi. Anche sulla fermata dell’autobus dove mi trovo ogni
giorno sarebbe saltato in aria un attentatore che avrebbe ucciso quattro
ragazze. Poi ci sarebbe stata una fase in cui gli attentatori si erano
precipitati con dei veicoli nel mezzo di masse di persone. Secondo loro il
fatto che al momento non vi siano tali atti di violenza sarebbe da riportare ai
confini e ai controlli intensi e alla presenza di soldati armati. Rana non
ritiene sia questo il motivo. Piuttosto sono i palestinesi ad aver preso la
decisione intelligente di non perseguire i loro obiettivi in questo modo per
non farsi screditare a livello internazionale.  
Gaza sarebbe
diventata un paradiso
“Devono dare
finalmente ai palestinesi quello che vogliono”, dice il signore che mi ospita,
“il loro stato indipendente”. Come molti non è d’accordo con gli insediamenti
ebraici e con l’occupazione della Cisgiordania. Ma non tutti la pensano così. E
anche lui non crede che l’indipendenza darà ai palestinesi la benedizione che
sperano.
Si ricorda di
Gaza. “Avrebbero potuto rendere Gaza un paradiso. Con tutti quei soldi entrati  in quel piccolo paese. Hanno le spiagge più
belle. Avrebbero potuto costruire impianti alberghieri, i vacanzieri sarebbero
arrivati in massa, entro breve il loro paese sarebbe fiorito, offrendo lavoro a
tutti e una bella infrastruttura, ecc. Ma hanno deciso di combattere. Ora hanno
introdotto la legge islamica, gli oppositori politici si scacciano a vicenda
dalle case e spesso si hanno delle esecuzioni pubbliche in presenza di
bambini”. Ed adirato aggiunge: “E poi arrivano questi europei e ci criticano per
come trattiamo i palestinesi.”
Paura e misure
di sicurezza
La paura della
persecuzione e della distruzione non proviene dalle guerre contro gli arabi e
neppure dagli attentati, anche se questi la confermano e la rafforzano. “L’Europa
non ci voleva. Ci sterminavano, ancora molto prima che i tedeschi iniziarono a
sterminarci del tutto, sostenuti da numerosi altri paesi. Sembra che noi ebrei
abbiamo qualcosa che non viene accettato da nessuna parte… e dunque ci
perseguitano e ci scacciano dappertutto”, mi dice Malcolm con un’espressione
addolorata e rassegnata. Poi, guardandomi direttamente negli occhi, aggiunge:
“Ho sentito che i giovani tedeschi sono stufi di essere colpevoli e di
assumersi la responsabilità.” Sento sulle mie spalle il peso di interi secoli e
comprendo che almeno per lui nulla è passato e perdonato.
Quasi tutti vedono
un futuro alquanto nero. Anche se Netanyahu venisse deposto e finalmente la
Palestina fosse riconosciuta, se si abbandonassero gli insediamenti ebrei,
hanno poca speranza che arrivi la pace con i loro vicini. Non credono alla
capacità degli arabi di costruire uno stato giusto e democratico, che prenda le
distanze dalla violenza, che abbandoni le sue pretese sul territorio israeliano
interno e la sua ira e le sue esigenze di vendetta. Hanno una fede molto forte
nell’immutabilità del loro destino, nello stigma degli ebrei e nel carattere
degli arabi.
L’impegno a
favore della sicurezza è enorme. Tutte le entrate delle stazioni, dei
supermercati, degli edifici pubblici, delle caffetterie, ecc., hanno controlli
d’accesso e apparecchi di screening. Già a Berlino prima di imbarcarmi sono
iniziati i controlli. Interrogatori dettagliati in cui con un abile gioco
psicologico si cerca di far perdere la testa a qualcuno per far impaperare
tutti i potenziali terroristi. Ho avuto modo di esperimentare l’intera portata
degli interrogatori, visto che per le mie ricerche presso il Technion Institute
avevo portato delle prove biologiche. Per la sicurezza gli israeliani si
impegnano a più non posso.
La costante
possibilità che scoppi una guerra viene ponderata ovunque. Gli ospedali hanno
piani interrati da trasformare in delle stazioni funzionanti per poter
trasferire i pazienti in settori sicuri durante una potenziale guerra. Il
traffico ferroviario funziona esclusivamente per locomotiva diesel visto che un
sistema elettrico potrebbe essere sabotato. La centrale di controllo della
ferrovia si trova sotto terra.
Nel frattempo
si vive la propria vita, si fa sport, si festeggiano feste di famiglia e si
segue il corso della propria vita. Ma per quanto riguarda il futuro del paese e
la possibilità della pace, si è disorientati e pessimisti. Molti pensano di andarsene
negli Uniti o altrove.
L’Europa non
riconoscerebbe i segni del tempo
Ma la
preoccupazione si estende anche ad altri paesi. Vengo sorpresa da diverse
affermazioni quali: “L’Europa avrà una brutta sorpresa. Ben presto verrà
colpita dal terrorismo arabo che è già iniziato. In Francia, in Svezia, e
persino in Australia. Gli ebrei che ancora vivono in Europa sono ingenui. Che
se ne vadano prima che possono,” oppure “La religione musulmana è violenta.
Vorrebbe imporre le sue regole al mondo intero, opprimere le donne, prendere la
libertà alle persone, fare delle esecuzioni per strada secondo la legge
islamica, …” Ecco che cosa mi dicono degli europei ingenui che apparentemente
non riconoscono i segni del tempo.
Sanno anche che
cosa succede in Germania (ad esempio le manifestazioni di Pegida e le proteste
neonaziste contro le case di accoglienza per profughi) e categorizzano il tutto
secondo il punto di vista israeliano. Non si può negare che in tutto il mondo
predominano antisemitismo e fondamentalismo islamico. Ma non appena oso dire
che i movimenti estremisti di tutti i tempi nella maggior parte dei casi sono
da ricondurre a ingiustizie sociali e all’oppressione, che spalancano le porte
ai demagoghi, mi fanno cenno di no, dicendo: “L’antisemitismo ci è sempre
stato, in tutti ceti sociali. Come avrebbe fatto altrimenti Hitler a realizzare
il suo programma?”
Lo stato non si
impegna a favore della riconciliazione
Per me è
angustiante vedere che nella percezione pubblica mancano altre opzioni che non
siano quella del pugno di ferro. Ci sono numerosi microprogetti che cercano di
riconciliare ebrei ed arabi. A Haifa un teatro recita pezzi con giovani di
entrambi i gruppi. In passato, mi racconta una signora anziana, c’erano campi
estivi comuni e programmi di scambio. Ma per paura di attacchi terroristici
questi sarebbero stati interrotti. Al signore che mi ospita e che ha figli che
vanno a scuola, chiedo se ci sono impegni istituzionali volti a mettere in
contatto tra loro i ragazzi in qualche programma. Dice di no. Lo stato non fa
nulla per riconciliare i gruppi tra loro, neppure in Israele. Si punto solo
sull’esercito e sui sistemi di sicurezza, ma le persone dubitano che questa sia
veramente la soluzione per garantire la sicurezza a lungo termine.
Progetto
teatrale per la comprensione tra le religioni a Haifa
Rana mi
racconta del suo incontro con gli unici israeliani che conosce. L’unione
internazionale della riconciliazione a Berlino aveva organizzato un seminario a
cui Rana aveva preso parte con altri palestinesi. Tra i partecipanti che
provenivano da tutto il mondo si trovavano anche due israeliani. Ogni giorno un
gruppo doveva presentare il proprio paese. “Sembrava come se gli israeliani e
noi raccontassimo di due paesi diversi. Avevamo delle prospettive talmente
diverse.” Inizialmente tra loro regnava il silenzio. “Fino ad allora in verità
ci eravamo capiti, ma dopo queste presentazioni gli israeliani presero le
distanze da noi. Ma quando alcuni giorni dopo si trattava di vedere con chi
condividere le camere, gli israeliani ci chiesero di condividere la stanza con
loro. Ovviamente avevano riflettuto. Non era stato facile per loro capire la
nostra prospettiva, ma dopo un po’ la accettarono. E da allora siamo amici”. 
Storie come
queste mi fanno sperare. Nonostante tutto il pessimismo riguardante il processo
di pace ci sono anche spiragli di speranza. Ad esempio con Malcolm, il
ricercatore di studi strategici, che dice cose del tipo “La speranza non è una
strategia” e “L’umanità tanto presto verrà estirpata”. E dopo aver parlato per
ore, salutandomi aggiunge: “Sai cosa spero? Spero che la tua realtà trionferà
visto che è più bella della mia. Ho io miei dubbi, ma te lo auguro di tutto il
cuore”. E nel suo sguardo noto la sua serietà triste, ma vedo anche un po’ di
speranza.