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“Periferie africanizzate” di Buenos Aires ed altre perle razziste nei media argentini

 Di Ezequiel Adamovskzy, Tlaxcala, 2 febbraio 2021, traduzione italiana di Milena Rampoldi. Pablo Sirvén, in una cronaca pubblicata su La Nación, ha suscitato indignazione diffusa con questo articolo che rivela una catena di associazioni molto comune nei nostri dibattiti pubblici. Accenna al pericolo che le periferie di Buenos Aires, “territorio inviolabile” e “africanizzato”, decidano nuovamente il “destino della patria” con il peso dei loro voti. E Cambiemos [il partito di Macri] deve fare di tutto per evitarlo. La catena è chiara: è il peronismo, associato all’Africa e al voto popolare, a costituire la minaccia. La patria che è in pericolo e ha bisogno di Cambiemos sarebbe implicitamente una realtà bianca ed europea.

 Uno dei tanti meme che sono apparsi in rete per commentare la prosa di Sirvén: qui i paesi del continente africano sono stati rinominati con i nomi dei sobborghi della capitale federale.

Non è la prima volta che Sirvén solleva questa dicotomia: di recente aveva già paragonato gli oppositori politici di Macri – e per estensione, tutta l’Argentina, che si ostina a non votare quello che invece lui vuole che si voti –con una tribù di origine africana. In altre cronache e nei sui social network l’associazione “Argentina = Africa” è una procedura comune di autodenigrazione.

Non ci vuole molto per identificare qui, anche se un po’ celato, lo stesso argomento che nelle fogne dei forum dei lettori si rende esplicito: il problema sono “i neri” che vanno a votare. L’Argentina è ingestibile per colpa dei “neri” che votano a favore del peronismo. E il corollario implicito è questo: per rendere l’Argentina un paese normale, in qualche modo si devono eliminare i neri. Ammazzandoli tutti. O forse con un colpo di fortuna, come nella recente fantasia di quel leader C radicale di Cordoba, la pandemia si occuperà della “pulizia etnica” dei “neri di La Matanza”. In questo modo potremmo essere l’Argentina che vogliamo essere. Tutti bianchi che votano il partito giusto. 

Non appena si accenna alla problematicità dell’argomento, arrivano anche sempre le scuse. “Mi riferivo all’Africa per via della povertà, non mi riferivo al colore”, “Non dico nero di pelle, dico nero nell’anima” [!!!]. Ma a questo punto non c’è più nulla da discutere. E non c’è neppure più spazio per la falsa ingenuità. Associare dei comportamenti o delle caratteristiche negative a un colore o ad un’etnia è discriminatorio. Lo è qui e lo è in tutto il mondo. Punto e basta. 

La nostra cultura si rifà ad una lunga tradizione di questo tipo che è ora di archiviare. Sin dal diciannovesimo secolo, si soleva discreditare la partecipazione popolare alla politica associandola ad una presunta “razza inferiore”, sia essa indigena, afro-discendente o “nera” in generale, intendendo per “nera” una miscela tra i due elementi. Per gli Unitari e alcuni dei loro eredi, il federalismo era la “barbarie”, animata da gauchos, indiani e meticci. Per alcuni conservatori, Yrigoyen era il leader dei “negritos”. Per l’anti-peronismo il problema era (ed è) la gravitazione delle “piccole teste nere”. E così fino ad oggi, in quella matrice narrativa si immagina che in Argentina ci sia sempre qualche barbarie che gli abitanti europei, bianchi, corretti, colti, lisci, sono chiamati a sradicare.

I media argentini oggi continuano a riprodurre queste forme velate di razzismo in numerosi modi. Ed alcune sono più raffinate di altre. Questa forma si ritrova ad esempio nelle angosce per l“africanizzazione” del paese – non sono solo quelle di Sirvén – che perpetua forme più comuni in passato di inquietudine per la “latinoamericanizzazione”. Come se l’appartenenza all’America Latina fosse qualcosa di intrinsecamente indesiderabile e ci staccasse da un destino europeo. Queste forme le ritroviamo anche nell’attribuzione selettiva della dignità di “cacicco” che viene concessa ai leader politici che, in questo modo, vengono collegati con gli indigeni. Ci sono “cacicchi” in periferia o a Formosa, ma non nella CABA [Città Autonoma di Buenos Aires] o a Rosario, e un referente radicale, liberale o di destra raramente si guadagna questo soprannome.  La stessa selettività si trova solitamente nella dignità di “persone”, che, ad esempio, gli abitanti di origine europea meritano, mentre altri di origine mapuche non la meritano. Si sa che non tutta la gente è “gente”. 

La discriminazione etnico-razziale implicitamente appare anche nei media, in quelle evocazioni troppo frequenti della storia del progresso argentino, in cui tutte le cose buone le abbiamo ricevute dagli “immigrati spagnoli, italiani, inglesi, tedeschi ”, che ci avrebbero portato“ la vocazione al duro lavoro ”, l’onestà, e chissà quali altre caratteristiche morali non verificabili ma che, implicitamente, è chiaro che gli abitanti che vivevano qui prima non possedevano. E che nemmeno chi oggi vive al di fuori della pampa gringa, occupata da quei nonni europei che avevano la virtù di non chiedere nulla allo Stato e che lavoravano, a differenza di quell’altra popolazione che viene “dal nord” e alla quale bisognerebbe insegnare a tenere i pollai, coltivare la terra o qualcosa del genere

Il problema, in verità, è che i media in Argentina non si limitano nemmeno a delle forme velate di razzismo, ma attivano anche le sue forme più dirette ed aggressive. Per anni Baby Etchecopar alla radio ha vomitato i suoi insulti contro i “negri di merda”. E lo faceva nonostante le diverse raccomandazioni dell’ INADI [Istituto Nazionale contro la Discriminazione, la Xenofobia e il Razzismo]. Né i proprietari delle radio in cui lavora, né gli inserzionisti, e tanto meno i suoi ascoltatori sembrano essere preoccupati di questo. 

Tutto questo oggi è inaccettabile. Espressioni di questo tipo nei media di altri paesi oramai non si ritrovano più da decenni. Dunque, non c’è motivo per noi di continuare a tollerarle. E non è questione di correttezza politica o di una cultura della cancellazione: i media ci devono una politica editoriale priva di discriminazioni etnico-razziali e più in linea con il XXI° secolo.