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Casino LAb tradizione e non solo

Silvio Talamo
L’evento di cui vorrei parlarvi questa volta ha preso piede nel sud, nel sud brullo e assolato della penisola italiana, in uno di quei paesini della Calabria, per l’esattezza Castelsilano, dove forse anche più del quaranta percento della popolazione torna solo per le vacanze ed ha casa altrove, di solito fuori la regione. 

Uno di quei posti, certamente conciliante, che deve essere raggiunto prima con un treno e poi con la corriera, meglio ancora se, arrivati all’ultima stazione, una macchina ti viene a prelevare per gli ultimi chilometri di tragitto. L’evento che vi indico è stato in primis un festival: il CasinoLab, tenutosi in una ex casa colonica ed attivo quasi 24 ore su 24. A dare il calcio di inizio è stato un artista calabro: Joe Mannarino, sostenuto da un’associazione culturale la “for Calabria” a cui si sono aggiunti in un cammino comunitario di autoproduzione altri artisti calabri e non solo. Il nodo di collegamento, in questa settimana d’agosto minacciata dal Covid, è stato la cultura popolare, quel filo acustico che lega l’espressione a linguaggi che si tramandano per generazioni. Sono stati presentati stage di danza e musica popolare, strumenti tradizionali, concerti di tarantella e canzoni legate ad una memoria, mostre fotografiche. Graziano Marasco mi ha fatto leggere il suo libricino di canti trascritti dalla voce dei vecchi del luogo, che ora non ci sono più. Abbiamo ascoltato la Lira, uno strumento di quelle terre, e la chitarra battente con la musica agricola dei “Sazeri”; abbiamo ascoltato la cornamusa di Simone Bonasso e c’era sempre un tamburello pronto a rompere il silenzio con le sue tarantelle, suonato da mani diverse ad ore diverse. Abbiamo visto i corpi interagire nello spazio disegnando movimenti e ritmando con i piedi gli andamenti delle danze: in percorsi, risposte e sequenze distinte a seconda della zona di provenienza dei balli ed abbiamo ascoltato il discorso dei danzatori che ci hanno raccontato della Tarantella del Marchesato, a cura di Davide Ancora e Marisa Angotti, o la Tarantella del reggino a cura di Agata Scopelliti, la quale ci ha mostrato un interessante video documento consultabile su You Tube. In contraccambio, giusto per unire alchemicamente gli estremi, il trambusto della giornata, a sua volta, poteva essere interrotto dal silenzio di una meditazione, meditazioni esercitate con posizioni e tecniche differenti: seduti, semiloto, con o senza campane ma sempre con le stesse finalità di armonia. È stato proposto altresì un laboratorio di yoga.

La Calabria è bellezza, così come tutto il sud con le sue tradizioni ed i suoi elementi che emergono ancora più vivi di forza, natura, sale, luce, pietra marina, boschi, montagne, scirocco: tanto più percepibili quanto è grossa la lontananza di chi li coglie e non ci vive più. La gente del luogo (che senza l’ombra del virus e le giuste restrizioni sanitarie sarebbe stata molto più numerosa) ha capito, partecipato alla novità, interagito, assorbito e dato … ma non possiamo considerare il festival solo come un revival folk, che pure non ci dispiacerebbe, a patto che non siano operazioni di facciata. Abbiamo dibattuto con Nicola Bloise su una terra che si svuota, borghi millenari lasciati a se stessi ed abbandonati, estetiche moderne fatte di piastrelle e disastrose superfici smaltate che sostituiscono porte di castagno (quelle dei nonni) gettate via come se nulla fosse; mura secolari e superfici di pietra snobbate in favore di moderne volgarità; una pecca riguardante, prima ancora che l’estetica, un clima mentale che, a mio avviso, vegeta non solo nelle “periferie” ma pure nei centri della nazione, il suo modo di percepire il tempo. Soprattutto abbiamo assistito a qualcosa che la tradizione la travalica o la taglia solo tangenzialmente, penso al dj set techno– trance – ethno proposto da Carletto Aiello, al blues di u’Mommu (sempre Joe Mannarino), allo stage di tamburi a cornice proposto da Giovanni Squillaciotti fortemente influenzato dalle ritmiche del mediterraneo orientale e penso alle sperimentazioni vocali e alla chitarra unita alla loop machine di Silvio Talamo (il qui presente – assente – scrivente!) e poi ancora al didgeridoo con delay di Lorenzo Aristodemo o le magliette stampate con timbri ed inchiostro proposte da Marta Letteri, un linguaggio tipicamente contemporaneo ma rivisto in chiave manuale. Sempre presenti le jam session e le contaminazioni estemporanee. Ricordiamo anche la performance con pittura, musica e poesia del collettivo-tribù “Essere Flusso”. C’è stato tanto da dire, tanto da riflettere, molte emozioni sono state raccolte dalle Crìu (Cristina Filardo – teatro, Giovanna Catalano – fotografia ed Agata Scopelliti già citata) in un tracciato fatto di immagini, parole e movimento. Sono tante le parole emerse: natura, ecologia, coscienza, terra, libertà, uso creativo e consapevole delle tecnologie, lotta all’isolamento, il Sud ed i sud del mondo, comunità … e c’è molto altro ma io aggiungerei, oltre a ciò, rinascita.
Ad evento finito mi rimane il senso di quel vuoto denunciato; un vuoto sociale ed individuale; un vuoto spaziale: quello dei borghi; un vuoto storico: quello di una memoria che iperalimentata si affievolisce. Eppure, malgrado il fatto che dietro il nostro momento ci sia un dramma, mi piace reagire e pensare a quei vuoti come una nuova possibilità, come uno spazio da riempire lasciando fuori gli stessi processi che lo hanno prodotto e lavorando a quei contenuti che invece ci vengono negati. Al sud c’è una delle nuove frontiere: le geografie fuori di noi da salvaguardare, la terra che abbiamo dentro di noi da curare e risvegliare.