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USA: le strade della sollevazione

Bruno Cartosio 02/07/2020
L’omicidio di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio ha innescato una sollevazione generale.

Una conflittualità sociale dispiegata e duratura come nessun’altra da decenni, violenta e non violenta, afroamericana e non, di uomini e donne di “colori”, età e condizione diverse. Una ragnatela di centinaia di manifestazioni di massa, constatava il New York Times il 7 giugno, che ha avvolto gli Stati Uniti in un «coerente movimento nazionale contro il razzismo del sistema».

Gli afroamericani sono alla testa della protesta, come lo erano stati negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, quando l’ultimo loro grande movimento aveva imposto cambiamenti radicali – contro il razzismo istituzionale e contro la povertà – nella società statunitense. Ma dopo quest’ultimo mezzo secolo di reazione la storia si deve ripetere. E stavolta la rabbia per gli omicidi da parte delle polizie locali, già allora scintilla delle rivolte urbane, è esasperata dall’innalzamento drammatico della disoccupazione e dalla devastazione dei contagi da Covid-19 degli ultimi mesi.
La polizia è violenta sempre, ma il numero degli afroamericani ammazzati dai poliziotti negli anni recenti – gli ultimi noti tra marzo e maggio: George Floyd in Minnesota, Ahmaud Arbery in Georgia (da ex poliziotti), Breonna Taylor in Kentucky e Manuel Ellis nello stato di Washington – è insopportabilmente alto: 755 tra il 2017 e oggi, quasi la metà dei bianchi (1308), nonostante che i neri siano il 13% della popolazione. È in risposta a questa brutalità selettiva che sono venute, storicamente, le rivolte più distruttive. “Occhio per occhio” era scritto su un cartello illuminato dalle fiamme: stazioni e auto della polizia incendiate, vetrine infrante e negozi saccheggiati. E quindi repressione con forze di polizia militarizzate e Guardia nazionale (e con l’esercito dispiegato come forza di occupazione interna, se i militari avessero obbedito a Trump). Il quale ha scritto con sincerità tanto rivelatrice quanto provocatoria: «Quando cominciano i saccheggi, si comincia a sparare»; citando le parole del capo razzista della polizia di Miami, Walter Headley (1967) e del razzista segregazionista governatore dell’Alabama George Wallace (1968) ed evocando quelle con cui nel 1970 Ronald Reagan – allora governatore della California – aveva invocato un “bagno di sangue” per ridurre al silenzio il movimento contro la guerra.
Nella rabbia di oggi c’è un condensato di verità storica. Le parole di Tamika Mallory a Minneapolis, una delle organizzatrici della prima grande “Women’s March” del 2017 contro Trump, sono state taglienti: «La ragione per cui gli edifici bruciano è perché questa città, questo stato hanno preferito conservare [il] nazionalismo bianco e [la] mentalità suprematista bianca… I giovani rispondono. Sono arrabbiati… Siate coerenti con quando dite che l’America è la terra dei liberi; non è stata libera per la gente nera. Siamo stanchi. Non parlateci di saccheggi, siete voi i saccheggiatori. L’America ha saccheggiato la gente nera; ha saccheggiato le terre dei nativi americani… Saccheggiare è quello che avete sempre fatto. E’ da voi che abbiamo imparato la violenza, quindi se volete che siamo migliori, allora siate voi a essere migliori».
Meno taglienti e altrettanto vere sono state le parole di Kareem Adbul-Jabbar, indimenticata superstar del basket: tu bianco vedi i neri che saccheggiano le vetrine di Target e pensi, non va bene, è una cosa che danneggia la vostra causa. «Non hai torto», ha scritto Kareem, «ma non hai neppure ragione»: il «razzismo in America è come il pulviscolo nell’aria. Sembra invisibile, anche se ti sta soffocando, fino a che non lasci entrare il sole. Allora vedi che è dappertutto».
Tuttavia, per la prima volta, la realtà di questa contraddizione non diventa un ostacolo insormontabile alla solidarietà e alla condivisione della piazza. La spiegazione c’è. Il crescere dei diversi antagonismi contro Trump e i drammi sociali degli ultimi mesi, direttamente e indirettamente legati alla pandemia, hanno fatto da catalizzatore. Pressoché ovunque al seguito dell’iniziale ribellione nera si è formata una composita corona di solidarietà politica combattiva e largamente non violenta. Tanto rappresentativa che non potrà essere ignorata, né ridotta a “delinquenti” (thugs), come li ha bollati Trump. Sufficientemente grande prima da accerchiare la Casa Bianca e costringere Trump a chiudersi nel bunker sotterraneo, e poi da riempire la capitale con un milione di dimostranti.
È forte la preoccupazione che le immagini di incendi e saccheggi possano giocare a favore della rielezione di Trump a novembre. E allora i grandi media, dopo lo sconcerto iniziale, hanno puntato cronache e immagini sulla tranquillizzante non violenza della protesta e le vaste solidarietà trasversali, tra cui quelle dei poliziotti “buoni” in ginocchio con i dimostranti. In tanti temono il ripetersi dei supposti effetti negativi che agitazioni e proteste ebbero sul voto del novembre 1968, quando Nixon vinse per un pelo sul candidato democratico Humphrey. Più che equivoco, quel richiamo è sbagliato: Nixon e la sua “maggioranza silenziosa” non vinsero per colpa del Movimento, ma grazie al 13,5% dei voti “sottratti” ai democratici nel Sud razzista da George Wallace, candidato indipendente dopo essere uscito dal Partito democratico contro la svolta johnsoniana a favore dei diritti civili e di voto dei neri.
Il pulviscolo razzista è presente «nel sistema educativo e giudiziario e nel mondo del lavoro»; è sempre lì, dice Kareem, l’ago dell’ingiustizia «non smette di pungere». Per i neri, anche se nelle strade è tanta la gente di buona volontà, alla violenza poliziesca si sovrappongono le altre due grandi crisi, disoccupazione e pandemia. La comunità afroamericana ne è stata investita più di ogni altra. L’Economic Policy Institute dà le cifre della realtà che i neri denunciano e contro cui hanno allargato la conflittualità attuale: sono il 13% della popolazione, ma i casi di Covid-19 sono per loro al 22% e le morti al 23%, e nel crollo verticale dell’occupazione la loro disoccupazione è di quattro-cinque punti più alta che per i bianchi.
Il prolungato disinteresse di Trump per le minacce della pandemia e le sue incoerenti decisioni ed esternazioni hanno avuto effetti devastanti su lavoro e salute. Tutte le rilevazioni hanno mostrato che gli afroamericani sono stati i più colpiti dal contagio (anche nelle carceri, dove sono in maggioranza). Poi, ad aprile, si sono aggiunte le chiusure e la crescita repentina dei licenziamenti, che in meno di due mesi hanno lasciato a casa 40 milioni di persone. Tra chi ha perso il lavoro la percentuale di afroamericani e latinoamericani, uomini e donne, è stata sproporzionatamente alta. Molti di loro non hanno risparmi accantonati e, perdendo il lavoro, hanno perso anche le coperture assistenziali (che arrivano tramite il datore di lavoro). I sussidi non bastano.
Non tutti i licenziamenti saranno definitivi, si dice, e alla lunga probabilmente sarà così: nelle ultime settimane di allentamento del lockdown quasi tre milioni di persone sono tornate a lavorare. Una parte saranno riassunzioni, ma molti posti di lavoro – sia nuovi, sia tra quelli che non sono stati cancellati – saranno a tempo parziale e a salari più bassi di prima. Nelle catene di fast food si rischia di perdere le conquiste salariali ottenute con le lotte degli ultimi anni. Lo stesso vale per i lavoratori e le lavoratrici che nel commercio, nella ristorazione, nell’alberghiero, nell’edilizia, nelle manifatture, nelle consegne erano riusciti a strappare condizioni di lavoro migliori e in qualche caso la sindacalizzazione. Gli assunti e le assunte negli ospedali e negli istituti di cura – anche lì salutati come gli “eroi del Covid-19” – hanno cominciato a essere tagliati, con l’attenuarsi dei contagi, e già in questi mesi hanno dato vita a significative forme di resistenza.
Tutti questi sono i settori a più alta occupazione di afroamericani e ispanici, quelli in cui le lotte salariali e per la sindacalizzazione sono state condotte con maggiore forza negli anni passati. Dovranno tutti tornare a lottare. Del resto, i maschi neri sono da decenni la componente di lavoratori più sindacalizzata e le donne nere e ispaniche sono state le protagoniste delle rivendicazioni degli ultimi anni. Non è un caso che siano stati i primi a essere licenziati e molti non saranno più assunti. Ma proprio la decisione con cui hanno lottato negli anni recenti ha dato anche ora a tanti di loro la motivazione necessaria per scendere nelle strade. La loro è una rabbia lucida, che coniuga l’insopportabilità delle violenze poliziesche con la risposta all’insulto razziale e l’inaccettabilità della condizione sociale. In prima linea nelle azioni di fuoco sono i più giovani, ma come in tutte le resistenze i meno giovani sono il retroterra necessario per dare peso politico, fare coalizione e tenere la barra del movimento.