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Perché il lavoro cognitivo è soprattutto riproduttivo, e ha bisogno di un reddito universale

Angela Balzano 12/05/2020
Non so più a che giorno di quarantena siamo. La produzione di merci non si è mai fermata, Governo e Confidustria non la interrompono, la riproduzione è garantita dal lavoro gratuito eseguito soprattutto dalle donne, costrette ad andare a lavoro, a lavorare on/offline in casa, a prendersi cura di figl*, nipot*, compagni e anzian*. 

Rileggo il libro di Brunella Casalini, Il femminismo e le sfide del neoliberismo, ai tempi del Cov-2, e mi chiedo quanto ne avremmo guadagnato tutt* se avessimo ridiscusso le forme e la distribuzione del lavoro di cura quando ce lo chiedevano le femministe. Mi chiedo: se avessimo dato il giusto valore alle loro teorie e pratiche, anche molto diverse le une dalle altre, ci saremmo forse accort* prima che sarebbe stato lo stesso smantellamento del sistema sanitario pubblico a causare l’emergenza sanitaria, ci saremmo forse dotate di un diverso stato-sociale?

Oggi paghiamo lo scotto di una rimozione che dura da secoli. Abbiamo ignorato che la riproduzione e la cura della vita fossero un bene comune, le abbiamo considerate troppo a lungo una faccenda privata, gestibile in “famiglia”. Abbiamo invisibilizzato e individualizzato sia la riproduzione sociale sia la riproduzione biologica, trascurandole come ambiti di indagine e analisi teorica, dunque di intervento culturale, normativo, economico, in ultima istanza politico.
Abbiamo ignorato che la riproduzione e la cura della vita fossero un bene comune
Almeno fino a quando il neoliberismo non ha suggerito di mettere a valore anche il privato, il personale. Il marxismo cieco alle differenze di genere è stato paradossalmente meno capace del neoliberalismo di contestualizzare l’importanza della riproduzione. Fatta eccezione per il femminismo marxista, si può dire che il neomarxismo abbia provato, ma non sia davvero riuscito a mettere a tema la trasversalità e la centralità del lavoro riproduttivo. Rimetterlo a tema vuol dire per me oggi ripensare le categorie di capitalismo immateriale, cognitariato, biocapitalismo cognitivo e capitale umano, alla luce dell’importanza che da sempre i corpi, non solo umani, rivestono in ogni economia (ringrazio Morini e Fumagalli per i contributi che da sempre danno in questa direzione). Adottare acriticamente queste categorie sarebbe come correre su un crinale. Il rischio, quando si dice “il capitalismo è cognitivo”, l’“economia è immateriale”, è quello di avallare nefaste distinzioni: le dicotomie materiale vs immateriale, mente vs corpo, natura vs cultura.
Nella prospettiva aperta dal femminismo cyborg e neomaterialista, naturacultura si legge e si scrive tutto attaccato, esistono teorie e pratiche che non oppongono la mente al corpo, che li ritengono coestensivi. È da questo posizionamento che scrivo della mia vita catturata nelle maglie dell’ipeproduttivismo universitario. Il capitalismo avanzato in occidente e not only si nutre dei corpi e dei suoi fluidi, di tessuti e cellule, anche quando sembra interessato alla nostra “produttività intellettuale” (si vedano sul punto Haraway, Cooper, Waldby e Braidotti).
Il “precariato della conoscenza” non brevetta e non scrive dall’iperuranio e paga a caro prezzo la rimozione del corpo: spesso in termini di cervicale e oculista. Il lavoro digitale continuato, cioè quello in cui siamo tutt* lavorator* non pagat* di social e app (non solo quello de* lavorator* della conoscenza), è innervato di rischi per la salute psicofisica. Ma non è questo il solo risvolto materiale a interessarmi. Credo, infatti, che oltre a rimuovere la presenza attiva dei nostri corpi nei processi ri/produttivi, la categoria di capitalismo immateriale ci faccia perdere di vista anche le questioni dei mezzi di produzione e delle materie prime, che ai tempi di neoliberismo e nuove tecnologie si presentano come scenari inediti, territori da esplorare (il grazie qui è all’apripista collettivo Ippolita).
Da questo posizionamento radicato, ancorata (e obbligata dalla quarantena) alla mia doppia scrivania virtualemateriale, non posso fare a meno di notare che ancora non siamo capaci di scrivere libri nel nostro cervello e scambiarceli telepaticamente. Per soddisfare quello che in Spinoza è il nostro conatus, il desiderio di conoscenza, noi i libri li scriviamo sul silicio e ce li scambiamo via cobalto. Non fingiamo di ignorare che per il loro reperimento si stia procedendo a mezzo di debito e nuove colonizzazioni, perché sotto il Wi-Fi c’è il silicio, sotto l’i-phone il cobalto.
Non è solo il cervello umano a essere messo a valore. Innanzitutto perché il “capitale umano” non è etereo, è un composto terroso e umidiccio dove affetti e capacità relazionali/comunicativo/linguistiche si mescolano e scorrono insieme a tutti i fluidi corporei. In secondo luogo perché, a voler citare proprio Marx e Engels, il presupposto di ogni storia è la riproduzione materiale della vita stessa: «per poter far storia gli uomini devono essere in grado di vivere»1.
Non esiste lavoro cognitivo che non sia sempre lavoro corporeo, lavoro da mammiferi, lavoro terrestre, così come non esiste un capitale che sarebbe più interessato a mettere a valore le idee che i corpi.