General

“Fauda” su Netflix: i palestinesi non riescono a mirare bene (e altre cose che abbiamo imparato).

05/05/2020 DI INVICTA PALESTINA
La serie di successo israeliana cerca di cambiare il modo in cui il pubblico considera l’occupazione illegale, ma rivela più di quanto intenda fare.
Azad Essa – 28 aprile 2020
Immagine di copertina: Lior Raz nel ruolo  di Doron Kavillio nella serie televisiva israeliana di successo Fauda, ​​ora su Netflix (Yes Studio)
Nota dell’editore: questo articolo contiene spoiler sulle prime tre stagioni di Fauda.
La terza stagione del pluripremiato successo televisivo israeliano Fauda (termine arabo per “Chaos”) è appena stata pubblicata su Netflix. Ha fatto aggrottare le ciglia per la sua rappresentazione “elettrizzante” di un Mista’arvim israeliano, o unità segreta d’élite, i cui componenti  trascorrono le giornate infiltrandosi nella Cisgiordania occupata e uccidendo cattivi palestinesi. Il New York Times lo ha definito un “thriller grintoso e naturalistico” e lo ha confrontato con The Wire.
Questa volta, il protagonista Doron Kavillio (Lior Raz, in modalità Rambo-lite) e la sua unità hanno messo gli occhi su una famiglia legata ad Hamas a Hebron, dove Doron è sotto copertura come allenatore di Bashar Hamdan (Ala Dakka), un giovane pugile palestinese di talento.
Quando Doron viene  smascherato, ne nasce uno scontro a fuoco. Un leader di Hamas in Cisgiordania viene ucciso. La famiglia Hamdan è accusata di tradimento. Infine, due giovani israeliani di un’accademia pre-militare vengono rapiti. Il loro successivo trasferimento a Gaza attraverso un tunnel scatena quindi un’impenetrabile missione di salvataggio israeliana.
Pensi: come la prima e la seconda stagione, Fauda è uno spettacolo televisivo, vivace e accattivante. Ma nessuno spiega perché gli israeliani si sentano così insicuri, né perché i palestinesi continuino a  ideare trame per attaccare gli israeliani. L’unità israeliana infrange le regole in nome della nazione e passa attraverso commissioni di inchiesta irrilevanti che ne assolvono sempre il comportamento . I palestinesi sono semplicemente uno scenario lontano dalla morte.
Fauda fornisce un appiglio pop-culturale su cui appendere l’intera accozzaglia del repertorio coloniale israeliano. Sopravvivi a un episodio di 45 minuti di un fumettistico massacro in due lingue, e potresti  arrivare in fondo con  una maggiore comprensione della psicologia che è alla base del sionismo liberale di Israele.
Ma per risparmiarti il ​​fastidio, ecco cinque punti chiave.
1. Gli israeliani adorano i “bravi” palestinesi
Secondo Fauda, ​​le forze speciali israeliane potranno pure essere  assassine dal cuore duro, ma aiuteranno sempre coloro che traggono profitto dall’occupazione israeliana (i compagni palestinesi li chiamerebbero collaboratori, o ameel in arabo).
Nella prima stagione, Doron  aveva corteggiato la dottoressa Shirin El Abed (Laetitia Eido), cugina palestinese e successivamente fidanzata di un agente di Hamas nella Cisgiordania occupata.
Nella terza stagione, Doron trascura suo figlio e diventa una figura paterna per Bashar. Successivamente uccide il padre del giovane pugile Jihad (Khalifa Natour), giorni dopo il suo ritorno da una prigione israeliana.
Quando Bashar  ricorre alla violenza, Doron insinua che “noi lo abbiamo trasformato  così ” e  viene ossessionato dal “salvarlo”.
È vero, Doron è più uno sociopatico da armi da fuoco che un angelico salvatore bianco – ma ehi, qual è la differenza?
2. I palestinesi conoscono solo la vendetta
Fauda insiste pesantemente sulla dedizione palestinese alla famiglia. Ripetutamente, i palestinesi devono scegliere tra i loro figli o il movimento. Indovina un po’? Scelgono sempre le loro famiglie e tradiscono il movimento.
E il loro interesse a unirsi al movimento è di solito guidato da una cosa: il desiderio di vendetta dopo la perdita di un membro della famiglia.
Nel fare questo, Fauda pensa  di umanizzare i palestinesi. Non sono solo uomini incappucciati assetati di sangue che corrono in giro urlando “Allahu Akbar”, vuole dire.
Ma scambia quel tropo con un altro. Sono sempre la stupidità, l’avidità, i sentimenti e la lussuria palestinesi a distruggere i loro piani, e a ogni palestinese  basta poco per vendersi.
Combattere per la Palestina è raffigurato come una vendetta. Il martirio è una stampella. La resistenza palestinese, sembra dire Fauda, ​​è costruita sull’anima di chi si svende.
Al contrario, i soldati israeliani possono essere socialmente disfunzionali, persino infrangere le leggi israeliane, ma sono incorruttibili per la causa del loro paese. Non devono preoccuparsi: il sistema troverà sempre un modo per riscattare le loro azioni, per quanto illegali possano essere.
Alcuni atti però vanno oltre la redenzione. Nella terza stagione, Avihay (Boaz Konforty), il tiratore scelto sotto copertura, uccide accidentalmente un altro soldato durante una missione. Non può essere redento.
3. Un palestinese è praticamente uguale a  un altro
Nella terza stagione, Abu Muhammad, il capo dell’ala militare di Hamas, è il cattivo designato di Bond. Bello ed eloquente, indossa denim con collo di pelliccia, ha un taglio di capelli sale e pepe ed è dolce, così dolce! “Sii gentile con lei”, miagola quando uno degli ostaggi, Yaara Zarhi (Reef Neeman), viene spostata in un altro luogo.
Ma è l’eccezione: il terrorista ospitale, “complesso”. Contrasta nettamente con le centinaia di agenti di Hamas che sono rozzi, corpulenti e mascherati, con mitragliatrici ed equipaggiamento mimetico, ma che non possono  competere con un quartetto di agenti israeliani che lavorano nel seminterrato di un collaboratore a Gaza.
Fauda dà molta importanza all’umanità dei suoi personaggi palestinesi. Ma quando arrivano i titoli di coda, la maggior parte di essi è in definitiva senza nome e senza volto, muore  come  le decine di nativi americani in un western di John Wayne.
4. Gaza è un altro pianeta
Se la Cisgiordania è il parco giochi dell’esercito israeliano, dove i soldati possono almeno divertirsi con droni, incursioni e annessioni, allora Gaza è un mondo diverso
Nella terza stagione, Eli (Yaakov Zada ​​Daniel), capo dell’unità antiterrorismo, subisce un attacco di panico durante una missione segreta nel centro di Gaza. Naturalmente, è stato traumatizzato, come tutti gli israeliani nelle precedenti missioni, dal rifiuto di morire di questo inferno in terra.
In quella che è forse la scena più ironica della televisione moderna, mentre Eli crolla a terra una donna palestinese si avvicina e gli chiede se ha bisogno di aiuto.
In Fauda, ​​scrive l’attivista Ory Noy, Gaza è il luogo del mito: ” non è del tutto reale, nel senso che la gente reale vive lì, ma allo stesso tempo è spaventosa e minacciosa”.
Questo senso di alterità si estende alle riprese stesse: le scene sono state girate in villaggi arabo-israeliani impoveriti dove gli abitanti del villaggio erano “incredibilmente amichevoli e cooperativi”.
Dato che Gaza è proiettata come un’isola remota e oscura in cui la vita è  povera e disordinata, i palestinesi sono poco più che oggetti di scena senza causa o scopo, le scene potrebbero essere state girate anche su Marte.
5. L’antiterrorismo israeliano? Stanno operando per noi
Nella terza stagione, Yaara viene rapita e piange continuamente, anche se viene nutrita con hummus e pane fresco e  lavata con esagerato rispetto e cura dai suoi rapitori.
Yaara è la personificazione dell’innocenza – e  salvarla giustifica gli agenti dello stato israeliano che si trasformano in mostri.
Ma in fondo, quei soldati israeliani e le forze speciali, sai, hanno anche dei sentimenti.
Ci viene ripetutamente ricordato che, certamente, le unità antiterrorismo israeliane infrangono la legge con le loro uccisioni extragiudiziali, ma è per la nostra protezione (il “nostro” ovviamente esclude qualsiasi dei “cattivi” palestinesi – ovvero, la maggior parte dei palestinesi). Stanno solo continuando  quello che le autorità israeliane hanno fatto negli ultimi sette decenni circa.
E il gioco è fatto: Fauda, uno spettacolo che deve più al 1948 che al 2020.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org