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Politica del dato, discorso pubblico e forme della sorveglianza Il patto sociale dell’epidemia

Off Topic 23/04/2020
Una epidemia, in un contesto umano, non rappresenta soltanto un fenomeno naturale, ma è anche e soprattutto un fenomeno sociale: come la società, e in particolare il sistema sanitario, è arrivata pronta o meno di fronte alla crisi della Salute pubblica; come la classe dirigente gestisce l’emergenza, come la società civile reagisce, il grado di percezione e l’immaginario dell’opinione pubblica: in sostanza, nella mediazione tra malattia, individui e gruppi operata da Stato, governo, capitali finanziari e industria.[1] In questo processo, centrale diviene il sapere medico, la cultura di organizzazione della sanità pubblica e il suo orientamento economico.[2]

Ciò che rende più o meno letale un virus non sono solo le caratteristiche sue proprie, ma anche il sistema di protezione che la società organizza nei confronti dei suoi membri in quanto corpi e organismi biologici.
La pandemia Covid-19 sarebbe dovuta rimanere una epidemia più virale e letale dell’influenza stagionale, con effetti lievi sulla grande maggioranza della popolazione, e molto seri solo su una piccola frazione di essa. Invece – se consideriamo in particolare alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti – lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici.[3]
A rivestire un ruolo fondamentale nella mediazione è il piano comunicativo, utile a legittimare le diverse forme della sorveglianza e del distanziamento sociale che inevitabilmente il governo applicherà. Ma come è costruito il discorso politico e tecnico che racconta giorno per giorno l’andamento della malattia e che viene poi ripreso, a cascata, da social network e grandi media? Alle ore 18 il paese si ferma. La comunicazione del bollettino della Protezione Civile e dell’Istituto Superiore di Sanità è diventato il rito laico del discorso pubblico nello stato d’emergenza epidemiologica.
Dall’inizio dell’emergenza abbiamo assistito a un cambio nella retorica pubblica, in un crescendo di aggressività e paternalismo di Stato verso la popolazione, in parallelo con l’inasprirsi delle misure di contenimento e la consapevolezza (arrivata troppo gradualmente e a un prezzo troppo caro) delle falle e degli errori commessi dalla classe dirigente nelle prime due settimane. La narrazione avviene in modo gerarchico e verticale, producendo i riverberi che poi vengono ripresi da social network e media.
Per rafforzare un racconto di “guerra” dove l’individuo (libero di esprimersi) diventa soldato (esegue degli ordini) la comunicazione del dato viene usato come spauracchio o elemento giustificatore di politiche di sorveglianza sempre più restrittive e permanenti. Il dato viene inserito in una cornice narrativa dove al senso di responsabilità e al sacrificio di chi sta in prima linea – personale medico-sanitario – in primis, si contrappone non una organizzazione produttiva, ad esempio, che ha mantenuto e continua a mantenere grossi assembramenti di persone non necessari, ma l’irresponsabilità dei comportamenti individuali. L’immagine del sacrificio è infatti riportata a più soggetti: i medici, appunto; i lavoratori che fanno andare avanti la produzione; i cittadini che restano in casa.
L’epidemia, come ogni situazione emergenziale in cui è a rischio la salute collettiva – e noi non dubitiamo di trovarci esattamente in questa situazione –, fonda un nuovo, sebbene in teoria temporaneo, patto sociale, caratterizzato inevitabilmente da maggiore disciplinamento sociale; tuttavia il profilo di questo dipenderà dal regime politico e dal contesto in cui scoppia l’emergenza, come già detto. Da noi, il garante del patto, che i sacrifici e le misure di sicurezza necessarie a tutelare tutti, a partire dai più deboli, vengano rispettati non è il ruolo proattivo della società e dei corpi intermedi, ma il braccio repressivo dello Stato: Forze dell’Ordine, militari, polizie locali.
Quando il piano del patto sociale epidemiologico è sbilanciato più sulla sorveglianza che sulla solidarietà ed eguaglianza sociale allora il rischio è che si verifichi un fenomeno che i sociologi, prendendo in prestito il termini dalla fisica, chiamano isteresi: detto anche fenomeno di ereditarietà, per cui il valore istantaneo di una grandezza che è determinata da un’altra dipende non soltanto dal valore di questa allo stesso istante, ma anche dai valori che essa ha avuto in istanti precedenti. Tradotto in termini più semplici: la forma di un corpo, sottoposto a una determinata pressione, rimane deformata anche successivamente al termine della pressione.
Sbatti il dato in prima pagina
La narrazione dei dati assume dunque una doppia funzione: da un lato, giustificare una certa forma di sacrifici (quella permessa dal governo e dai mercati), distogliere l’attenzione dall’organizzazione sociale e concentrarla, in una ottica di comportamentismo radicale, sui singoli irresponsabili – i runner, i passeggiatori irriducibili, i genitori che portano fuori i figli, chi va a fare la spesa per “pochi euro” e così via in un elenco dal sapore sempre più grottesco – che determinerebbero, con la loro influenza sugli altri, ampie variazioni nella statistica dei grandi numeri; dall’altro, ricordare che <<un prerequisito della libertà è la salute fisica>>[4], e dunque tutte le limitazioni sono legittime se ci troviamo in una “guerra contro un nemico invisibile”.
Ma di che dati stiamo parlando? Davide Mancino, su InfoData del Sole 24 Ore[5], ci ricorda che per interpretare correttamente i numeri assoluti comunicati quotidianamente nel bollettino delle 18
Dobbiamo però tenere a mente che già in tempi normali raccogliere informazioni da fonti diverse a un ritmo così sostenuto, metterle insieme in forma sistematica e senza errori non è per nulla facile. Le difficoltà si moltiplicano poi in una situazione di grave crisi come quella in cui ci troviamo.
Inoltre, citando una ricerca del Centre for the Mathematical Modelling of Infectious Disease[6], gruppo multidisciplinare alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, in Italia appena il 4,7% dei casi reali di contagio da Covid-19 sarebbe stato individuato dalle autorità. Questo, se da un lato dunque restituisce una dimensione molto più imponente all’epidemia, dall’altro lato però riporterebbe anche alla realtà l’allarme circa la più alta mortalità che in media il virus registrerebbe da noi rispetto ad altri paesi – anche se bisogna aggiungere che altri due fattori incidono nella percentuale di decessi: la struttura demografica della popolazione, a partire dall’età; la maggiore pressione cui sono sottoposti gli ospedali in questa emergenza, fatto che abbassa la soglia di cura dei ricoverati.
Prendere consapevolezza di questo dato aiuterebbe anche a controllare meglio la comunicazione, le reazioni dell’opinione pubblica e la gestione stessa della malattia: quando infatti, il governatore lombardo Fontana dichiara di stupirsi per l’aumento di ammalati registrato in Lombardia, senza considerare ad esempio la correlazione con il numero di tamponi effettuato, tradisce anche una profonda ignoranza e competenza in termini di data literacy.
In secondo luogo, un’altra avvertenza che ci arriva dai ricercatori, ci aiuta a decostruire la stessa cadenza quotidiana del bollettino di Protezione civile e ISS: fra la conferma di un caso e un decesso passa necessariamente diverso tempo, in media 13 giorni, secondo le stime del gruppo; e anche questo va tenuto a mente: i numeri che guardiamo oggi sono in realtà una foto scattata circa due settimane fa. E a questo proposito, aggiungiamo il secondo punto, quello dei decessi: come dimostrato da un’inchiesta de L’Eco di Bergamo[7] e denunciato anche dall’associazione dei medici di base bresciani, un metodo sistematico per calcolare la reale mortalità causata dal Covid-19 in un territorio non può basarsi sui solo decessi ufficiali, ma dovrebbe operare la differenza tra la loro media statistica, poniamo, degli ultimi 10 anni e il numero registrato nel periodo in cui è scoppiata l’epidemia. Dopo le prime settimane di silenzio e reticenze, la pressione da parte della società civile ha ottenuto che l’ISTAT[8] e il Sistema di sorveglianza sulla mortalità giornaliera (facente capo al Ministero della Salute) pubblicassero le statistiche sui decessi. Il risultato, se da un lato ha resto più profondi il lutto e il trauma sociale[9], ha però posto come centrale la questione del sommerso: mortalità effettiva, dinamiche del contagio e necessarie misure di solidarietà con tutti gli esclusi, per qualunque ragione, dal dato ufficiale. E, come dimostrato dalle recenti aperture di indagini sull’ospedale di Alzano Lombardo e sulle Residenze sanitarie per anziani, fare luce sul sommerso significa anche evidenziare le gravi mancanze nella gestione politica dell’epidemia e le responsabilità nella subordinazione, dalla Regione Lombardia al Comune di Milano, della salute pubblica alle pressioni di Confindustria e Confcommercio.
Ad ogni modo, anche ad applicare le dovute correzioni di calcolo e di analisi, resta che vivremo in ogni caso in una illusione di precisione. E’ il punto forse più importante, che ci conferma una volta di più del carattere del dato come costrutto sociale: questo infatti è cosa si sceglie di comunicare, ma anche come si sceglie di raccoglierlo. A proposito dei dati comunicati dalla Protezione Civile, che giustificherebbero la transizione verso la fase 2, con allentamenti previsti dal 14 aprile per le attività lavorative, in un post su Facebook dell’11 aprile, ha notato giustamente il giornalista Daniele Raineri che
Siamo troppo in là con i giorni di lockdown, lo stessa percentuale di crescita che una settimana fa [5 aprile, NDA] ci faceva dire “le cose stanno andando meglio” oggi apre una questione. Abbiamo bisogno di nuovi dati, quelli che ci arrivano dalla Protezione civile sono troppo opachi. Età media dei nuovi contagiati? Uscivano per lavorare o erano in lockdown? Avevano familiari o persone in casa infetti? Hanno usato i mezzi pubblici? Hanno notato i primi sintomi una, due, tre settimane fa? Sono dati anonimi e facili da raccogliere. Soprattutto sono dati che dovrebbero essere comunicati a un paese che va verso i quaranta giorni di restrizioni della libertà personale. Comunicare soltanto quante persone sono in terapia intensiva regione per regione comincia a suonare condiscendente, devi comunicare qual è il problema di trasmissione del virus oggi.
E in un post del giorno successivo:
I dati non sono falsi, sono parziali. In alcune categorie sono precisi e utili. In altre categorie hanno soltanto una vaga relazione proporzionale con la realtà. Ne servono molti di più e scomposti meglio. A cominciare dai tamponi. Il numero dei tamponi di controllo (quelli per sapere se se i malati già accertati sono ancora malati oppure no) va separato dai tamponi che scoprono nuovi positivi.
Che la precisione sia reale o meno è secondario rispetto a quella necessità di chiarezza che la società sviluppa quasi con morbosità quando viene posta violentemente di fronte alla complessità del mondo[10]: è meccanismo tipico delle crisi, come aveva già notato Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, e come sembra ancora più presente in questa nuova fase della crisi globale che ci costringe a una ossimorica separazione iper-connessa e all’overdose informativa.
Al tempo stesso, la narrazione del numero assoluto è al centro dell’altro livello della macchina del consenso, quello contro i comportamenti individuali che parte da decreti e ordinanze dei governanti e viene poi rinforzata in questo caso da telegiornali, quotidiani e social network. Se infatti mettiamo il giro di vite alla prova dei dati (spostamenti, traffico web, percentuale violazioni ordinanze) non sembra giustificato l’attacco retorico e giuridico verso la popolazione. Alcuni casi a titolo di esempio:
Il numero di controlli nel periodo 9-27 marzo nella Città Metropolitana di Milano è 222.757, di cui le violazioni delle ordinanze è 5166, ovvero il 2,3%; numero che si abbassa ancora di più a Milano città (circa 1,5%). Mentre sulle attività commerciali si rasenta lo 0%;
A livello nazionale, il numero di controlli al 23 marzo è stato di circa 2 milioni con violazioni del 4,6%;
Sabato 4 aprile il Corriere della Sera apriva la prima pagina con il titolo Troppi fuori casa, più controlli e a pag. 2, annunciando un presunto <<boom di sanzioni>>, riportava che giovedì 2 aprile queste erano state quasi 7.659 su un totale di 246.829 controlli (quindi 3,10%) – a Milano 369 su 17.639 (2%). La settimana successiva si confermava il trend, con 18497 controlli il 10 aprile e appena 4 denunce;
Secondo l’osservatorio dell’Università di Bergamo Covid-19&Mobility[11], la maggioranza dei movimenti delle persone è dovuto a motivi lavorativi o di sopravvivenza (fare la spesa, andare in farmacia), come dimostra il picco delle persone a casa nei fine settimana (77% il 28-29/3 e 83% il 11-12/4) e una media infrasettimanale del 65%.
Eppure, nonostante una tendenza complessiva di rispetto della quarantena, come ha sottolineato in più occasioni Luca Casarotti[12] è aumentato l’utilizzo del codice penale e delle misure punitive per indurre gli individui ad atteggiamenti e movimenti leciti. Tale uso appare sempre più non solo ai limiti della costituzionalità, ma legate a fini di rinforzo negativo (“non comportarti in un certo modo”) e costruzione di un immaginario coerente con l’azione governativa – e la inazione e confusione – più che con la reale applicazione di questo nuovo diritto d’emergenza sanitaria, le cui diverse parti (decreti e ordinanze) assume sempre più il carattere di <<oscuri proclami>>[13], difficilmente interpretabili e che possano trovare riscontro nella prassi sanzionatoria[14].