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La vera prova di Israele nel combattere la pandemia sta nella fine dell’occupazione

06/04/2020 DI INVICTA PALESTINA
La solidarietà che dimostriamo verso i palestinesi oggi determinerà il tipo di paese in cui vivremo al termine della pandemia.

Di Avner Gvaryahu – 5 Aprile 2020
Fino a quando una casa non viene colpita da una tempesta è impossibile sapere quanto sia resistente o fragile, se le sue fondamenta sono stabili, la sua infrastruttura solida o il suo tetto adeguatamente fissato. Tutto questo ora è messo alla prova mentre la tempesta di coronavirus colpisce le nostre coste e guadagna potenza in Israele e nei territori occupati.
Questo vale tanto per le nostre abitazioni quanto per la scena nazionale e globale. Tutto viene messo alla prova in momenti come questi, dai piani governativi a lungo termine alla qualità della formazione dei fornitori di servizi.
Come in ogni test a sorpresa, c’è chi inizia improvvisando, costretto a pensare prontamente e in breve tempo. Abbastanza rapidamente, tuttavia, diventa chiaro che non si può fare affidamento solo sull’improvvisazione; Il nostro successo dipende in gran parte dalla misura in cui ci siamo preparati in anticipo. Improvvisamente, le storie delle straordinarie conquiste della “Start-Up Nation” sembrano fugaci e fin troppo fragili di fronte all’abbandono del settore pubblico da parte dello stato. I budget sanitari di Israele sono stati sistematicamente prosciugati per anni e le conseguenze, inclusa una grave mancanza di letti ospedalieri disponibili, test e ventilatori, sono evidenti a tutti. Il sistema educativo è stato quasi sospeso, poiché gli investimenti necessari nella tecnologia di apprendimento online non sono stati effettuati in tempo. Tutto questo sta emergendo solo un mese dopo la diagnosi di COVID-19 nei primi cittadini israeliani, e poco prima delle dure settimane che ci attendono.
Nel frattempo, il cosiddetto “processo di pace” è stato messo da parte, lontano della psicosi nazionale israeliana. Queste due parole, che erano state consumate e derise molto prima della pandemia globale, sono poco più che una copertura per la riluttanza della nostra nazione e l’incompetenza cronica, nel far fronte a ciò che sta rapidamente diventando una necessità esistenziale.
Nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est vivono milioni di palestinesi su cui abbiamo ostinatamente rifiutato di rinunciare al controllo. E con il controllo arriva la responsabilità. Come affronteremo la situazione a Gaza nel caso in cui il numero di casi di coronavirus aumentasse? Cosa faremo quando finiremo i ventilatori e gli infetti in Cisgiordania non saranno più in grado di respirare?
Israele non è solo responsabile dei suoi nove milioni di cittadini, ma di tutti i 14 milioni di esseri umani che vivono sotto il nostro controllo tra il fiume e il mare. Tuttavia, la sua stretta sul popolo palestinese non è mai stata così miope, presuntuosa e pericolosa.
Abbiamo attivamente impedito a un’intera nazione di costruirsi una patria, uno stato. Li abbiamo stipati senza pietà in Bantustans, rendendo impossibile per loro sviluppare la propria economia, le infrastrutture pubbliche e le normali relazioni diplomatiche. Abbiamo bombardato ospedali e centrali elettriche a Gaza, senza fermarci a chiederci cosa poteva accadere quando i malati sarebbero arrivati alla recinzione per chiedere cure mediche che ci siamo rifiutati di fornirgli.
Ora più che mai, è chiaro che il capitalismo libero e il nazionalismo frenetico che hanno guidato i successivi governi israeliani ci hanno deluso. È ancora troppo presto per sapere se leader populisti come Donald Trump, Jair Bolsonaro e Boris Johnson pagheranno per i loro errori, o se, come il loro amico Viktor Orbán, sfrutteranno la crisi per intensificare il loro assalto allo stato di diritto e consolidare ulteriormente il loro potere.
Gli attivisti della società civile hanno il loro bel da fare. Dobbiamo aiutare in ogni modo possibile per combattere la pandemia. Dobbiamo vigilare sui tentativi delle autorità di impadronirsi del potere, per garantire che la crisi non venga sfruttata per danneggiare irreversibilmente le nostre istituzioni democratiche. E dobbiamo coraggiosamente delineare la nostra visione per un futuro migliore.
Chi sta a sinistra non può più permettersi il lusso di rimanere in silenzio o vergogna di chi siamo e di ciò in cui crediamo. Per noi, la parola chiave è sempre stata e rimane solidarietà. Vera solidarietà, che richiede maggiori investimenti nei nostri servizi pubblici e meno flash mob dai nostri balconi.
La solidarietà che ci dimostriamo a vicenda ora modellerà il tipo di paese in cui vivremo il giorno dopo la fine della pandemia. La nostra solidarietà verso il popolo palestinese determinerà se possiamo sostituire l’occupazione senza fine con un futuro diverso, in cui un’altra nazione non è più soggetta al nostro dominio.
Questa non è un’esercitazione, è un codice rosso. Dobbiamo cogliere questo momento e liberare milioni di palestinesi sotto il nostro controllo, in modo che possano finalmente autodeterminarsi liberamente. Se decidiamo ancora una volta di rimandare, non ci riprenderemo mai come nazione. Possiamo scegliere di uscire da questa crisi meglio equipaggiati per affrontare le difficili decisioni che ci attendono, oppure possiamo continuare a far finta di non vedere. La scelta è nostra.
Avner Gvaryahu è il direttore esecutivo di Breaking the Silence.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org