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Il confinamento provoca una crisi sociale mondiale

Eric Albert, Julien Bouissou e Béatrice Madelin 25/04/2020
Le misure per cercare di contenere la pandemia del Covid-19 hanno provocato profonde recessioni nell’economia, i cui effetti, immediati per le popolazioni più fragili, si faranno sentire a lungo.

Tradotto da Silvana Fioresi
Nelle vie di Napoli sono apparsi dei cesti sospesi alle finestre. La popolazione ci mette del cibo per coloro che non hanno più niente. Nel Regno Unito, il numero di persone che non mangiano abbastanza è quadruplicato nel corso delle prime tre settimane di confinamento. In Francia, nei Restos du Cœur [le mense popolari, ndt], “arriva una nuova popolazione di richiedenti: persone che alloggiano negli hotel o nei centri sociali, oppure che vivono abusivamente o nelle baraccopoli”, descrive Patrice Blanc, il presidente. Vicino a Dehli, in India, un migrante si è suicidato il 16 aprile: questo lavoratore a giornata, padre di quattro figli, aveva venduto il giorno prima il suo cellulare per comprare da mangiare alla famiglia. Ovunque, in tutto il pianeta, il confinamento di molte migliaia di persone sta provocando una gigantesca crisi sociale. La prima ripercussione visibile si può vedere nelle mense popolari e nelle banche alimentari. Milioni di persone che vivevano senza alcuna riserva finanziaria sono finiti improvvisamente senza nessuna risorsa. Ma il grande timore di tutti è che sia solo l’inizio. “Durante l’austerità [tra il 2010 e il 2018], era già dura, ma questa volta rischia di essere il Far West”, si preoccupa Alison Inglis­Jones, della banca alimentare di Norwood e Brixton, a sud di Londra.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il prodotto interno lordo mondiale si abbasserà del 3% nel 2020, molto di più che durante la grande recessione del 2009, quando si era abbassato dell’1,7%. “A meno che non si trovi un modo di parare, le conseguenze sociali rischiano di essere molto peggiori”, avverte Michael Marmot, professore dell’University College London e autore di un rapporto di riferimento sulle ineguaglianze nel sistema sanitario del Regno Unito.
Sicuro, questa recessione è diversa. La sola speranza è che la ripresa sarà più forte, una volta che la pandemia sarà controllata. In Europa, tutti i governi, quindi, hanno lanciato enormi programmi di sostegno per evitare la disoccupazione di massa, pagando provvisoriamente gli stipendi in modo che le società possano mantenere i loro dipendenti. Ma tutto porta a pensare che non si potranno evitare dei licenziamenti.
Nel Regno Unito, secondo la Resolution Foundation, un gruppo di riflessione, circa 11 milioni di impieghi (il 40% del totale), saranno impattati dalla crisi: 8 milioni di persone potrebbero andare in cassa integrazione, ma 3 milioni di impieghi rischiano di essere tagliati. “Significa un aumento più rapido e senza dubbio a livello più alto di quello che si era vissuto negli anni ’80, l’ultimo grande periodo di disoccupazione britannica”, sottolinea Torsten Bell, il direttore.
La povertà uccide
L’Osservatorio francese delle congiunture economiche (OFCE) ha, da parte sua, stimato, in una nota pubblicata lunedì 20 aprile, che 460 000 persone in più si ritroverebbero disoccupate in Francia durante le otto settimane di confinamento, per il solo fatto che la fine dei contratti a tempo determinato, dei contratti interinali e di quelli in periodo di prova non danno accesso alla cassa integrazione.
Negli Stati Uniti, dove tali misure sociali non esistono, 22 milioni di disoccupati supplementari sono stati registrati in un mese – tanti quanti il numero totale dei nuovi impieghi nel corso di … un decennio. Quindi, un abbassamento dell’1% dell’impiego aumenta del 2% l’incidenza di malattie croniche, secondo uno studio del Center For Economic Policy Research.
Nei paesi poveri, relativamente risparmiati dal numero di casi di Covid 19, tra il 60% e il 90% della popolazione lavora nel settore “informale”. Per costoro, perdere il loro lavoro vuol dire perdere l’unico mezzo di sussistenza. Secondo le previsioni del ricercatore del King’s College di Londra e dell’Australian National University, la pandemia potrebbe far scivolare un mezzo miliardo di abitanti del pianeta nella povertà, soprattutto nei paesi a basso reddito. Ciò cancellerebbe di colpo i progressi registrati durante gli ultimi dai dieci ai trent’anni, a seconda dei paesi. Nell’Africa subsahariana i minorenni, che rappresentano la metà della popolazione povera in tutto il mondo, sarebbero le principali vittime. «I rischi di maltrattamento e di sfruttamento di ragazze e ragazzi sono più alti che mai», si preoccupa il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef).
Anche in uno scenario ottimista di ripresa economica nel 2021 – se si troverà un vaccino, per esempio – le cicatrici sociali di questa crisi sembrano inevitabili. Infatti, la povertà uccide. Non è un modo di dire ma una realtà comprovata da numerosi lavori di ricerca. Negli Stati Uniti la speranza di vita negli ambienti indigenti si abbassa, mettendo fine a un rialzo durato quasi un secolo, e il divario con quello dei più ricchi aumenta sempre di più.
Gli economisti Anne Case e Angus Deaton li hanno chiamati « i morti di disperazione», un’espressione che racconta la spirale infernale che si abbatte su una popolazione schiacciata dalla povertà: rialzo dei suicidi, del consumo di alcool e di droga, cattiva alimentazione e, nel caso americano, dipendenza da medicinali a base di oppiacei… nel nord del Regno Unito dei medici hanno trovato un altro soprannome allo stesso fenomeno: “la sindrome di una vita di merda”. Questi legami esistevano già nel XIX secolo. Uno studio del 2006 sulla popolazione olandese nata tra il 1819 e il 1912 ha concluso che nascere durante una recessione ridurrebbe la speranza di vita del 5%.
“Conseguenze significative sulla salute”
All’inizio dell’epidemia Donald Trump aveva dichiarato: «Il rimedio non dovrebbe essere peggiore del male». Il presidente americano era stato criticato per aver messo l’economia prima della salute degli americani. «Il risultato del calo economico avrà delle conseguenze significative sulla salute della gente a breve e a lungo termine», scrivono James Banks, Heidi Karjalainen e Carol Propper in un rapporto per l’Institute for Fiscal Studies, un gruppo di riflessione britannico. “Un dibattito è stato aperto per sapere se gli effetti negativi della recessione sulla salute possono essere più importanti del rialzo della morbosità e della mortalità della stessa pandemia”.
Le epidemie del passato ci insegnano qualcosa di inquietante. Così, i bambini nati durante la pandemia di influenza spagnola, che ha provocato 50 milioni di morti tra il 1918 e il 1919, non si sono praticamente mai ripresi: i loro genitori sono stati forse malati, la loro alimentazione è stata perturbata, come anche la loro istruzione… “Uno studio dimostra che le popolazioni esposte in utero alla pandemia presentavano un più basso livello di istruzione, dei tassi di incapacità fisica più elevati, dei redditi più bassi, uno status socio-economico inferiore rispetto ad altre popolazioni alla nascita”, spiega Josselin Thuillez, economista della salute e ricercatore al CNRS [Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, ndt].
Stessa cosa per l’epidemia di Ebola, che ha provocato, secondo l’organizzazione mondiale della Sanità (OMS) più di 11 mila vittime tra il 2014 e il 2015, e fermato le economie dei paesi dell’Africa Occidentale. Questa epidemia ha avuto una cascata di conseguenze negative. La chiusura delle scuole ha pesato sul livello d’istruzione, a rischio di diminuire le rendite future, e la saturazione delle infrastrutture della sanità ha provocato un deterioramento della sanità pubblica.
“Non rifare gli errori del dopo-2008”
“Il numero dei morti non provocati dal virus Ebola è aumentato”, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, nel 2015. “Questo numero include un innalzamento della mortalità infantile e materna, poiché una parte crescente delle risorse sono riservate alla lotta contro l’epidemia, e la gente evita gli ospedali, per paura di essere contaminati”. La Sierra Leone ha registrato un abbassamento di circa il 30% dei parti nei centri ospedalieri durante l’epidemia, e un innalzamento della mortalità materna. Impiegati massivamente nel settore informale e nell’agricoltura, le donne sono molto più fortemente impattate dalla disoccupazione. 
L’esempio di Ebola ha mostrato come la paura del contagio si propaghi più velocemente, e più a lungo, del virus stesso, a rischio di rallentare la riapertura di fabbriche e scuole. “La paura di essere contagiati non scompare dalle menti da un giorno all’altro”, spiega J. Thuilliez. “Può ritardare il ritorno al lavoro molto tempo dopo la fine dell’epidemia, soprattutto nei paesi che non hanno un sistema sociale solido”.
Il bilancio drammatico delle conseguenze sociali del confinamento non costituisce comunque una scusa per lasciar correre la pandemia del Covid-19, che avrebbe potuto fare circa 40 milioni di morti senza le attuali misure, secondo l’Imperial College London.
“Non bisogna rifare gli stessi errori del post 2008”, avverte M. Marmot. Secondo lui non è tanto la crisi economica che ha fatto abbassare la speranza di vita nel Regno Unito, ma è il decennio di austerità che ne è seguito. I tagli drastici negli aiuti sociali e il budget ridotto dei servizi sanitari hanno avuto delle conseguenze a lungo termine più importanti. “Sicuramente la recessione aumenta l’ineguaglianza in ambito sanitario, ma possiamo fare in modo di uscire da questa crisi diversamente, con un sistema riformato”.