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Diffondere il virus dell’occupazione: sputare è un’arma nelle mani del regime coloniale israeliano

Ramzy Baroud 20/4/2020
Sputare contro qualcuno è considerato universalmente un gesto infamante. Ma gli sputi rivolti ai Palestinesi in Israele hanno radici più profonde.

Dopo la conferma da parte della comunità scientifica che il coronavirus si trasmette attraverso particelle di saliva, i soldati israeliani e i coloni ebraici sputano sistematicamente contro i Palestinesi, le loro auto, le porte delle loro case e così via.
Se questo dovesse sembrarvi surreale o ripugnante, probabilmente non conoscete fino in fondo il colonialismo israeliano e le sue peculiarità.
In realtà, gli israeliani sputavano contro i palestinesi già molto prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ci spiegasse il meccanismo di diffusione del COVID-19 e dell’importanza del cosiddetto ‘distanziamento sociale’.
In effetti, cercando su Google la frase ‘Israeliani che sputano’, si viene letteralmente sommersi di risultati alquanto interessanti, “Jerusalem Judge to Jews: Don’t Spit On Christians“ (Giudice di Gerusalemme agli Ebrei: Non Sputate contro i Cristiani), “Christians in Jerusalem want Jews to Stop Spitting on Them” (Cristiani di Gerusalemme Chiedono che gli Ebrei smettano di sputargli addosso”), e più di recente, “Israel Settlers Spitting on Palestinian Cars Raises Concern over Attempt to Spread Coronavirus” (Gli Sputi dei Coloni Israeliani contro veicoli Palestinesi Fa Temere un Maggiore Diffusione del Coronavirus).
È interessante notare come queste notizie si trovino per lo più sui media israeliani, mentre ricevono pochissima attenzione da parte dalla stampa mainstream occidentale.
Sarebbe sin troppo facile relegare questi atti a uno dei tanti esempi dell’infondato senso di superiorità che gli Israeliani percepiscono nei confronti dei Palestinesi. Tuttavia, il tentativo esplicito di infettare la popolazione occupata con il coronavirus va ben di là del normale disprezzo, anche per un regime di stampo coloniale.
In questa vicenda, almeno due elementi meritano particolare attenzione:
Prima di tutto, il fatto che episodi del genere si siano verificati in più parti della Palestina occupata. Questo significa che, nel giro di pochissimi giorni, la mentalità dell’esercito israeliano e dei coloni si è adattata molto rapidamente, dal razzismo già esistente al tentativo di diffondere un virus letale come mezzo di soggiogazione e danneggiamento dei Palestinesi, a livello materiale e simbolico.
C’è poi da ragionare sul livello di ignoranza e buffonaggine che accompagna questi atti razzisti e umilianti.
Il paradigma di potere che finora ha fondato il rapporto tra Israele, potenza coloniale, e i Palestinesi colonizzati si è caratterizzato per una sostanziale impunità di Israele.
Questi israeliani razzisti che cercano deliberatamente di contagiare i Palestinesi con il COVID-19 non sono solo criminali nel ragionamento e nel comportamento conseguente, ma anche del tutto insensati.
Quando i soldati israeliani arrestano o picchiano i militanti palestinesi, hanno una possibilità di contrarre il virus pari a quella che hanno di trasmetterlo.
Ma ovviamente, Israele sta facendo di tutto per complicare, se non addirittura ostacolare, i tentativi da parte dei Palestinesi di contenere la diffusione del coronavirus.
Il 23 marzo, un lavoratore palestinese, Malek Jayousi, è stato gettato al ciglio di una strada dalle autorità israeliane nei pressi del checkpoint militare di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sussisteva il sospetto che avesse contratto il coronavirus.
Il video del povero lavoratore rannicchiato in prossimità del checkpoint, dopo essere stato “scaricato come un sacco della spazzatura”, è diventato virale sui social media.
Per quanto sconvolgente, quella scena si è verificata in varie zone della West Bank.
Ovviamente, i lavoratori palestinesi non erano stati sottoposti al tampone, ma mostravano sintomi riconducibili a un virus influenzale, e questo è stato sufficiente perché Israele li trattasse come se la loro vita fosse del tutto irrilevante.
Due settimane dopo, il Governatore palestinese di Qalqiliya, Rafi’ Rawajbeh, ha rivelato alla stampa che l’esercito israeliano aveva aperto dei condotti fognari vicino alla sua città, nella Palestina settentrionale, allo scopo di introdurre illegalmente i lavoratori palestinesi in West Bank, senza coordinarsi preventivamente con l’Autorità Nazionale Palestinese.
Senza la possibilità di eseguire tamponi su centinaia di lavoratori, per l’ANP, che sta già operando con capacità limitate per fronteggiare il virus, sarà di fatto impossibile contenerne la diffusione.
La denuncia palestinese contro il tentativo esplicito da parte di Israele di favorire il contagio è stata confermata dall’Euro-Med Monitor di Ginevra, che il 31 marzo ha chiesto alla comunità internazionale di fare luce sul ‘comportamento sospetto’ di soldati israeliani e coloni ebraici.
Durante i raid dell’esercito israeliano contro le abitazioni private palestinesi, i soldati hanno “sputato contro veicoli parcheggiati, Bancomat e serrature dei negozi, e questo solleva timori sui tentativi diretti di diffondere il virus e causare il panico nella società civile palestinese,” secondo l’Euro-Med.
L’Articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra non vieta esplicitamente agli esponenti della forza occupante di sputare contro le comunità sottomesse e occupate; probabilmente, perché sembra scontato che un simile comportamento sia del tutto inaccettabile e non dovrebbe necessitare di un riferimento esplicito.
Tuttavia, lo stesso articolo 56, come recentemente sottolineato da Michael Lynk, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati, prevede che Israele, in qualità di forza occupante, “adotti e applichi le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie.”
Tuttavia, Israele non sta rispettando questo mandato, nel modo più assoluto.
Anche il sindaco israeliano di Gerusalemme, Moshe Leon, ha evidenziato una sostanziale disparità nelle azioni messe in campo da Israele per contrastare il coronavirus.
Nella sua lettera al Direttore Generale del Ministero della Salute, Moshe Bar Siman Tov, Leon ha messo in guardia contro “la carenza grave di apparecchiature mediche negli ospedali (palestinesi) di Gerusalemme Est (occupata), soprattutto di dispositivi di protezione e di tamponi per la diagnosi del coronavirus”
Se la situazione a Gerusalemme Est e in West Bank è questa, quella di Gaza è semplicemente disastrosa: il 9 aprile, il Ministro della Salute della Striscia ha dichiarato che erano finite le già esigue scorte di tamponi, che ammontavano solo a poche centinaia.
Ciò significa che i numerosi gazawi in quarantena dovranno rimanerci ancora a lungo e che i nuovi casi non possono essere diagnosticati, né tantomeno trattati.
Più volte, nelle ultime settimane, abbiamo ipotizzato uno scenario terrificante che avrebbe potuto verificarsi, soprattutto perché Israele usa il coronavirus come un’opportunità per isolare ulteriormente i Palestinesi e barattare un possibile aiuto umanitario con concessioni di natura politica.
Senza un intervento immediato da parte della comunità internazionale, la Palestina occupata, e in particolare la Striscia di Gaza, sottoposta al blocco e in condizioni economiche disastrose, si trasformeranno in un autentico focolaio del coronavirus.
Israele non cederà mai senza un intervento internazionale. Se non sarà formalmente portato di fronte alla giustizia, neanche un virus letale sarà in grado di cambiare il modus operandi di questa vile occupazione militare.
– Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of five books. His latest is “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” (Clarity Press, Atlanta). Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU). His website is www.ramzybaroud.net
Traduzione per InfoPal di Romana Rubeo