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Coronavirus: ci vuole una laurea in mascherinologia?

Leopoldo Salmaso 09/04/2020
Ebbene sì, lo confesso! Pur essendo specialista in Malattie Infettive e in Sanità Pubblica, a proposito di mascherine non ho mai trovato riferimenti chiari e concreti da parte delle autorità italiane competenti.

Già nel 2010, in occasione dell’epidemia influenzale H1N1, l’ISS dichiarò la propria “ignoranza”[1] sull’argomento e poi mantenne un silenzio imbarazzante.
Quest’anno, fra decreti, circolari, comunicazioni varie, si assiste a una tale confusione e scaricabarile da far temere che occorrerà istituire un corso di laurea in mascherinologia!
Con tali fonti nebulose, una volta tanto non c’è da stupirsi se i media continuano a comunicare tutto e il contrario di tutto. Poi, su Repubblica[2] del 6/4/20 ho visto l’intervista al direttore del dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali (DAER) del Politecnico di Milano. Il DAER è un riferimento autorevole per i costruttori di mascherine[3], così speravo che Repubblica offrisse una divulgazione concreta e chiara ad uso dei comuni mortali, invece… non ci siamo proprio!
Forse sono rintronato io, dopo un mese di stressante inseguimento della pandemia stando in Tanzania, e dopo un secondo mese ancor più estenuante stando in confinamento domiciliare a Padova, ma ho deciso di verificare le nozioni di fondo, e possibilmente trasferirle a tanti lettori disorientati.
Mi occuperò solo di mascherine cosiddette chirurgiche, lasciando ad altri l’esercizio sadomasochistico di tormentare i profani con roba tipo Ffp-123456789.
Per cominciare mi pare d’obbligo, anche se non prioritario, fare chiarezza sulle grandezze in questione, e lo faccio con una tabella che mostra esempi di “oggetti” fra i più noti, aventi lunghezza o diametro a partire da un millimetro, a scendere fino a un millesimo di millimetro (micrometro o micron), a un milionesimo di millimetro (nanometro), e giù verso il miliardesimo di millimetro (picometro). Per i più curiosi segnalo una bella animazione[4], con scala di grandezze dal macrocosmo al microcosmo.
Nella tabella ho evidenziato in rosso la fascia compresa fra 10 micron e 1/10 di micron, perché contiene l’intervallo di grandezze che ci interessano. Notare che i “pori” delle mascherine chirurgiche (quelle standard in tessuto non tessuto-TNT) si aggirano attorno a mezzo micron, ma la capacità filtrante in vivo[5] è molto maggiore, per ragioni che vedremo.
I test industriali sulle mascherine si fanno con particolati inerti, al massimo ionizzati, seguendo i princìpi della fisica classica, newtoniana. Facciamo un esempio grossolano: per fabbricare una zanzariera basta conoscere le dimensioni della più piccola zanzara (3 mm); si progetta una rete con maglie di 2 mm, e il gioco è fatto.
Applicando le medesime categorie mentali, si crede che attraverso ogni poro di una mascherina chirurgica possa passare un agglomerato di oltre 50 coronavirus, supponendo che questi formino un’unica “sferula”, come palle di biliardo strettamente connesse.
Questo ci siamo sentiti ripetere da tanti “esperti” che ricevono lauti compensi per andare nei salotti televisivi o sulle prime pagine della stampa mainstream.
Ma in biologia le cose non sono così semplici: i materiali biologici, e in particolare le particelle virali (virioni), si comportano in maniera assai differente dalle palle di biliardo, esibendo una serie di caratteristiche (polarizzazione, elettrostasi, idro-lipo-filia, idro-lipo-paticità, affinità, viscosità, adesività, plasticità, etc.) tali da relegare in ultimissimo piano le pure dimensioni fisiche. Per esempio, è esperienza comune vedere i fili di una ragnatela talmente ricoperti di brina da raggiungere diametri fino a cinque millimetri, cioè mille volte il diametro del filo di bava che sta all’interno. Quel fenomeno rientra nei limiti della fisica classica: qui interessa notare che il filo di ragnatela ha una struttura molto più semplice e “liscia” di un coronavirus, ed è circondato da acqua pura. Invece i coronavirus, quando non sono all’interno delle cellule, non sono nudi e non stanno neppure a bagnomaria in goccioline di acqua: essi sono avviluppati in un brodo di molecole polisaccaridiche e proteiche, trattenute ancor di più dagli spikes (le antennine del virus). Perciò uno o pochi virioni con la loro matrice viscosa formano “gocce” di diametro assai superiore, e quelle gocce, una volta liberate in aria sotto forma di aerosol, cadono a terra in meno di un minuto. Poi, indipendentemente dal materiale su cui si depositano, i virioni vanno rapidamente incontro a processi di disidratazione, denaturazione, cristallizzazione che li rendono inattivi biologicamente (ma il test PCR continua a rilevarli per giorni, e i media continuano a terrorizzare la gente).
Queste e altre considerazioni sulla differenza fra mondo della fisica classica e mondo della biologia trovano riscontro nei pochi studi fatti sulle condizioni reali, cioè coltivando i virus ottenuti da starnuti, con e senza mascherina. Da quel genere di studi risulta che difficilmente il coronavirus e i virus affini passano attraverso le mascherine chirurgiche[6],[7],[8].
È degno di nota il fatto che le fibre di tessuto non tessuto (TNT), di cui sono fatte le mascherine chirurgiche sono lisce. Non ci sono studi analoghi su barriere costituite da tessuti di fibre naturali come lana, cotone, lino, canapa, però sappiamo che quelle fibre emanano grandi quantità di “peluria” la quale potrebbe trattenere gran parte dei coronavirus anche se le maglie del tessuto fossero (come spesso sono) ben più larghe del fatidico mezzo micron.
C’è poi da tenere in conto il fatto che non solo all’aperto, ma anche in ambienti ben aerati, ogni tipo di aerosol viene rapidamente disperso, anche nelle sue componenti minime, appunto le goccioline di mezzo micron.
Infine, ma non ultimo: non basta inalare una o dieci particelle virali biologicamente attive perché si stabilisca un’infezione, ma ne occorrono decine/centinaia di migliaia. Dopodiché bisogna conoscere la storia naturale dell’infezione, conoscenza che si può avere sempre e solo in termini statistici, ma non potremo averla fintantoché non faremo studi su campioni rigorosamente randomizzati[9] dell’intera popolazione. Intanto possiamo solo dare stime approssimative, basandoci sulle casistiche meno soggette a vizi selettivi, tipo Corea del Sud. Quindi: su mille persone infettate, meno di cinquecento svilupperanno un qualche sintomo. Fra quelle, una cinquantina svilupperanno malattia che richieda il ricovero ospedaliero, e non più di cinque potranno morire, senza che siano state registrate altre gravi patologie soggiacenti, a parte l’età quasi sempre avanzata (senectus ipsa morbus: la vecchiaia è di per sé malattia).
A questo punto, più di un lettore chiederà: “vabbè, ma in definitiva ‘ste mascherine non-ffp mi proteggono si o no dall’infezione?”. Ebbene, caro/a lettore/lettrice, non me ne volere, ma se cerchi un SI o NO, non posso che rinviarti ai salotti televisivi dove, più accaniti sono i sostenitori del SI e del NO, più sale l’audience…
A me, come dichiarato in apertura, sembra prioritario aiutarti a mettere a fuoco poche nozioni fondamentali, necessarie e sufficienti per contribuire a quel consenso informato e diffuso all’intera popolazione, senza del quale non potremo superare questa emergenza presto e bene.
Note