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Per compiacere Trump, Netanyahu si lava le mani sull’allerta coronavirus.

Su richiesta della Casa Bianca, Netanyahu ha ignorato il suo Ministero della Sanità e ha optato per una politica di quarantena generale per evitare di mettere in imbarazzo il presidente degli Stati Uniti.

Natasha Roth-Rowland – 10 marzo 2020
Immagine di copertina: il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Direttore Generale del Ministero della Salute Moshe Bar Siman Tov tengono una conferenza stampa sul coronavirus COVID-19, presso il Ministero della Salute di Gerusalemme, il 4 marzo 2020. (Olivier Fitoussi / Flash90)
Lunedì sera, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che tutti coloro che arrivano dall’estero dovranno mettersi in auto-quarantena per un minimo di 14 giorni per cercare di fermare la diffusione del coronavirus nel Paese.
La misura costituisce un duro colpo per l’industria turistica israeliana, aumentando la tensione economica in un momento già difficoltoso. Due compagnie aeree israeliane, Israir e Arkia, hanno cancellato tutti i loro voli internazionali almeno fino alla fine del mese, con Israir che ha effettuato i voli per riportare a casa i turisti israeliani. La compagnia aerea di bandiera israeliana, El Al, ha tenuto varie riunioni di emergenza prima di decidere di proseguire, almeno per il momento, con il normale programma.
Finora, ci sono 50 casi confermati di coronavirus all’interno della Linea Verde e 26 nella Cisgiordania occupata (tutti, tranne uno, a Betlemme).
Il piano originario del governo israeliano era molto più drastico: i consiglieri del ministero della Sanità avevano inizialmente proposto di aggiungere gli Stati Uniti all’elenco di Paesi da cui gli israeliani di ritorno dovevano mettersi in auto-quarantena per almeno due settimane, in particolare quelli che sbarcavano da New York, California o Seattle, ad oggi i tre centri dell’epidemia negli Stati Uniti.
Ma Netanyahu e altri ministri si sono opposti a tale raccomandazione. La ragione, che molti avevano già ipotizzato prima che la decisione fosse presa, è stata confermata lunedì dal Canale 13 israeliano: Netanyahu stava aderendo a una richiesta dell’amministrazione Trump, per evitare che il presidente degli Stati Uniti apparisse in cattiva luce durante l’anno elettorale.
Il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence – lo scettico verso la scienza che Trump ha incaricato di supervisionare la risposta del governo al coronavirus – domenica ha personalmente chiesto a Netanyahu di non includere gli Stati Uniti nell’elenco dei Paesi soggetti alla quarantena, ma di stabilire invece una politica generale. Il primo ministro ha obbedito. Il ministro del Turismo Yaron Levin ha anche ribadito che Israele non avrebbe fatto “passi unilaterali” senza un “coordinamento” con Washington.
Nella conferenza stampa di domenica sera Netanyahu, prima di annunciare che nessun Paese sarebbe stato “scelto” per i requisiti di auto-quarantena, aveva fornito una vaga valutazione sulla risposta della Casa Bianca al virus. Pertanto, il primo ministro aveva lasciato aperte due opzioni per le misure di quarantena: non imporre alcuna quarantena per chi proveniva dagli Stati Uniti, ignorando così il consiglio del proprio Ministero della Sanità, o imporre la quarantena a tutti coloro che entravano nel Paese, indipendentemente da dove arrivavano e se erano viaggiatori internazionali o israeliani che rientravano.
In altre parole, Netanyahu doveva decidere tra il mettere i propri cittadini a rischio di esposizione al virus o silurare l’economia turistica di Israele mentre i mercati finanziari globali sono in crisi. E alla fine, per stare dalla parte di Trump, il primo ministro ha fatto la seconda scelta.
Da quando il nuovo ceppo del coronavirus, COVID-19, ha iniziato a diffondersi a gennaio, il governo israeliano ha messo in atto alcune delle pratiche di contenimento più rigorose al mondo. Con l’aumentare del numero di Paesi interessati dal virus in piena espansione, probabilmente vedremo più Stati imporre misure draconiane alla libertà di movimento per provare a rallentare l’inevitabile diffusione della malattia.
Ma la decisione di Israele – come ha sottolineato Chemi Shalev ad Haaretz – è stata presa a principale beneficio di Trump che, a otto mesi dalle elezioni del 2020, sta affrontando una simile crisi completamente impreparato e non attrezzato,.
Da un lato, questa sequenza di eventi non è sorprendente. Le relazioni di Netanyahu con Trump, che ha riportato l’antisemitismo retrogrado nel mainstream americano, sono considerate il risultato principale della sua politica estera, unitamente ai doni pro-annessione con cui il presidente l’ha contraccambiato.
Non sorprende quindi che Netanyahu acconsentirebbe a dargli una mano con un occhio alle imminenti elezioni statunitensi, proprio come ha fatto Trump rilasciando il suo cosiddetto “affare del secolo” poco più di un mese prima delle recenti elezioni israeliane.
Tuttavia, è inquietante osservare la logica del Partito Repubblicano nell’influenzare le decisioni del primo ministro israeliano durante una crisi di salute pubblica: rendere felice Trump, anche se ciò potrebbe costare la vita ai propri cittadini e / o gettare in rovina l’economia .
Siamo abituati a vedere Netanyahu unirsi a Trump in decisioni che determinano ulteriore miseria, uccisioni e abusi sui palestinesi, come con l’ambasciata degli Stati Uniti trasferita a Gerusalemme e come il presunto “piano di pace” di Trump. In quei casi, tuttavia, i risultati garantirono un enorme capitale politico al primo ministro. Con questa decisione sul coronavirus, è difficile vedere chi ringrazierà Netanyahu – a parte il suo benefattore statunitense.
Questa decisione, ovviamente, non è l’unica misura correlata al coronavirus in cui la politica prevale sulla salute pubblica. Come ha sottolineato la mia collega Henriette Chacar qualche giorno fa, la decisione del ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett di blindare militarmente Betlemme in risposta allo scoppio del virus in città, è in netto contrasto con le misure di auto-quarantena imposte agli israeliani all’interno della linea verde. Tali sono i vantaggi di una dittatura militare, anche in una città che, come parte dell’Area A, è apparentemente sotto il pieno controllo dell’Autorità Palestinese.
Il vasto divario tra tali misure parallele è il calcolo politico presente in Israele-Palestina. L’intero apparato statale israeliano è progettato per garantire che ciò che è necessario per i palestinesi non lo sia per gli ebrei, e viceversa, anche quando vivono nella stessa area.
Tuttavia, con la sua auto-quarantena, Netanyahu ora tiene in ostaggio l’intera popolazione, e l’economia con essa. Proprio come Trump ha trasformato il coronavirus in un problema bipartisan, così Netanyahu lo ha trasformato in un problema di alleanza politica – e la gente comune pagherà il prezzo dei loro giochi.
Natasha Roth-Rowland è una dottoranda di storia presso l’Università della Virginia, dove è ricercatrice e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Ha trascorso diversi anni come scrittrice, montatrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” mentre cercava asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org