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La Siria nove anni dopo: «Fuga di massa, mancano gli aiuti»

Chiara Cruciati 16 marzo 2020
Medio Oriente. Intervista a Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr: «Solo il 9% dell nostro lavoro è coperto. Dall’inizio del 2020 abbiamo distribuito aiuti con attraversamenti di confine a 180mila persone, ma il nostro accesso alla popolazione è limitato e discontinuo»

Nove anni fa, il 15 marzo 2011, le prime manifestazioni di piazza contro il governo di Bashar al-Assad segnavano l’inizio di una delle più brutali guerre contemporanee. La distruzione di un paese, fisica, morale, politica. Lo sfibramento di una nazione, lo smantellamento delle relazioni sociali. Oggi si entra nel decimo anno di guerra, mai finita, con un milione in più di sfollati.
Un numero enorme che fa ulteriormente salire il bilancio di chi non conosce più casa, normalità, dignità. Metà della popolazione siriana, 11 milioni su un totale di 22, è ancora sfollato interno o rifugiato all’estero. È in questo quadro che prosegue, nonostante un fragilissimo cessate il fuoco, il conflitto nel nord-ovest tra Damasco e la Turchia e i suoi alleati islamisti, nonché l’occupazione turca del Rojava a maggioranza curdo.
La situazione è drammatica, gli sfollati vivono in condizioni terribili, al freddo, senza rifugi sicuri. Ne abbiamo parlato con Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr. L’agenzia Onu ha lanciato un nuovo appello per raccogliere fondi che affrontino l’ennesima emergenza.
Può farci un quadro della situazione a oggi degli sfollati e dei rifugiati siriani?
Oggi entriamo nel decimo anno di guerra senza che sia trovata una soluzione né si sia data la possibilità al popolo siriano di tornare in un paese pacificato. Questo fa sì che gran parte della popolazione sia ancora costretta a fuggire, la più grande popolazione rifugiata al mondo. I siriani hanno dimostrato grande capacità di adattamento, sono fuggiti in ogni parte del mondo, in paesi africani, europei, in America latina. Ma soprattutto nei paesi vicini, Turchia, Libano, Iraq e Giordania. Se è una grande storia di solidarietà, perché questi paesi hanno accolto i siriani dandogli la possibilità di essere ospitati in sicurezza, la maggior parte di loro vive sotto la soglia di povertà, una minaccia per il futuro di tante famiglie, dei bambini nati in guerra.
Avete lanciato un appello per finanziare l’emergenza. Di quali mezzi disponete?
Come Unhcr abbiamo fatto un appello perché, se la risposta umanitaria è stata importante in questi anni, oggi le attività di aiuto sono coperte solo al 9%. C’è un bisogno estremo, la zona del nord-ovest, ovvero Aleppo e Idlib sono aree di conflitto aperto. Abbiamo anche chiesto che le persone più vulnerabili possano entrare nei paesi vicini, moltissime sono oggi ammassate tra Siria e Turchia. Dall’inizio del 2020 abbiamo distribuito aiuti con attraversamenti di confine, più di 12 missioni, ma il nostro accesso alla popolazione è limitato e discontinuo perché dipendente dalle condizioni di sicurezza. Abbiamo distribuito tende e materiali – non cibo, ma materiali per cucinare, lavarsi, vestirsi, dei kit che comprendono prodotti di prima necessità – per 180mila persone nei governatorati di Aleppo e Idlib. E poi facciamo lavoro di supporto psico-sociale, di tutela legale delle proprietà lasciate dietro di sé, case, terre.
Chi ha finanziato quel 9%? E chi vorreste che donasse?
È finanziato da Stati e istituzioni internazionali, come la Banca mondiale, ma anche da privati. Dal 2012 sono stati incanalati 14 miliardi di dollari attraverso una coalizione di 200 partner coordinata da Unhcr e Undp. Molto di più è stato donato con canali bilaterali, da Stato ad agenzia. Purtroppo succede che le promesse degli Stati sono diverse dagli effettivi trasferimenti. Per questo facciamo appello ai donatori privati: ci permettono di lavorare subito. E devo dire che gli italiani stanno rispondendo benissimo, anche in questo periodo di crisi.
Vi aspettavate, nove anni dopo, che la situazione fosse ancora così drammatica?
Sono più di 11 milioni i siriani sfollati e rifugiati, numeri catastrofici. Nelle città ci sono case e infrastrutture completamente distrutte. Quando si parlava con i primi siriani scappati all’estero il loro primo pensiero era tornare presto in Siria, è una popolazione che ha sempre avuto un forte desiderio di tornare a casa. Oggi diventa sempre più difficile.