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Gli occhi dei bambini vedono meglio

Manuela De Leonardis BEIRUT, Il Manifesto 08.01.2020
Intervista. Un incontro con Anni Kanafani, erede intellettuale e politica dello scrittore arabo Ghassan Kanafani, assassinato nel 1972. La memoria del marito vive nella Fondazione culturale che porta avanti progetti educativi per bambini dei campi profughi palestinesi.

Copertina: «The Art of Childhood», Dar el-Nimer, Beirut (45/o anniversario della Fondazione Ghassan Kanafani) e Anni Kanafani; foto di Manuela De Leonardis
Manuela De Leonardis BEIRUT, Il Manifesto 08.01.2020
Al decimo piano di un edificio moderno di Verdun, il quartiere finanziario di Beirut, ha sede la Ghassan Kanafani Cultural Foundation (Gkcf), Ong fondata l’8 luglio 1974 in occasione del secondo anniversario dell’assassinio di Ghassan Kanafani (Acri 1936 – Beirut 1972). Ad aprire la porta è Anni Høver Kanafani, moglie di Ghassan e madre dei suoi figli Fayez e Laila, che ha continuato con tenacia – attraverso le parole e, soprattutto, le azioni – a rinnovare la memoria dell’uomo che sposò nel 1961.


Ghassan Kanafani è considerato tra i più grandi autori arabi moderni (notissimo il suo romanzo Uomini sotto il sole, Sellerio), intellettuale, scrittore, poeta, giornalista e dal 1969 attivista politico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp). Sediamo nella sala riunioni prima di spostarci nello studio dove, con un gesto amorevole, Anni prende dalla libreria un volume dalla copertina rosa, mostrando la prima biografia del marito. Una colazione con tè e caffè solubile, fragole e mandarini, biscotti libanesi al sesamo e Lotus Biscoff accompagna l’incontro. Oltre le grandi finestre, il mare si perde in un orizzonte azzurro che sembra lontanissimo, al di là del bosco di cemento e paraboliche che circondano l’edificio. Con i suoi 83 anni, Anni Kanafani sprizza energia anche nel modo di parlare: frasi brevi e concise in un inglese dall’accento danese. Sul piano del tavolo rettangolare, tra gli altri libri, c’è anche una copia di The Little Lantern, scritto da Kanafani nel ’63 per l’ottavo compleanno della nipote Lamis che aveva 16 anni quando fu assassinata insieme a lui nell’attentato firmato dal Mossad. Un libro che è stato fonte d’ispirazione per l’artista e filmmaker Mario Rizzi che proprio qui a Beirut ha trascorso alcuni mesi, tra la fine del 2018 e la primavera 2019, per realizzare The Little Lantern (2019), ultimo capitolo della trilogia Bayt (Casa), dedicato proprio alla figura di Anni Kanafani. L’opera fa parte della retrospettiva Bayt (a cura di Cristiana Perrella) al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino al 15 marzo 2020).
Nell’attività educativa della Ghassan Kanafani Cultural Foundation che gestisce asili nido e centri di abilitazione per oltre seicento bambini nei campi profughi palestinesi e nelle aree svantaggiate in Libano, rivolto anche ai piccoli disabili, l’arte riveste un ruolo fondamentale…
È mia figlia Laila, che si è laureata in arte all’università di Beirut, la responsabile del progetto di arte e creatività della Fondazione. A Reggio Emilia, dove andò per un seminario in un noto centro sull’infanzia (fondato dal pedagogista Loris Malaguzzi, ndr), rimase molto colpita dal metodo educativo incentrato sulle potenzialità del bambino in relazione all’ambiente educativo. Tornata qui, ha deciso di iniziare un progetto di formazione aperto ai bambini. Non era necessario che avessero già abilità nel disegnare e dipingere, era importante insegnare loro a esprimere visualmente e verbalmente la percezione di sé. Sono più di vent’anni ormai che questo metodo viene applicato nei kinderkartens dei campi profughi Palestinesi. Dal progetto è nata anche una mostra che è stata esposta in diversi luoghi, tra cui la sede dell’Unesco. Il catalogo Like Roses in the Wind, Self-Portraits and Thoughts, la cui prima edizione è del 2002, raccoglie autoritratti dei bambini, soprattutto tra i 5 e i 7 anni, con qualche breve intervista in cui sono state riportate le loro parole. Appartengono alla quarta generazione di rifugiati palestinesi che vivono in Libano. «Sono felice quando mia zia arriva dall’estero… Quando la vedo, rido e sento il mio stomaco agitarsi come le rose al vento»: queste parole sono state dette da Alaa Al-Asaad, un bimbo che proviene da Shaab, Acri e vive nel campo di Burj Al-Barajneh. Quando le abbiamo ascoltate ci siamo detti, ecco abbiamo trovato il titolo per il libro!
Perché è importante la formula dell’autoritratto attraverso l’uso dello specchio?
È fondamentale conoscere il mondo partendo da se stessi. Fin dalle prime esperienze nei kindergarten, basilare è stato trasmettere una consapevolezza della propria identità attraverso l’autorappresentazione. Lo specchio è imprescindibile. Si può vedere il proprio volto, il corpo. Ognuno ha un piccolo specchio che gli consente di guardarsi ma, prima ancora, gli viene data una lente con cui può osservare anche gli occhi dei compagni. I bambini cominciano a raffigurarsi con il disegno a matita per poi sperimentare altre tecniche. È necessaria l’interazione e la collaborazione fra loro, anche nel momento in cui si realizzano dei dipinti collettivi.
Quanto è difficile parlare di futuro ai bambini che crescono nei campi profughi?
Soprattutto qui in Libano è un grande problema, perché i bambini sì vanno a scuola – alcuni frequentano anche le superiori e l’università – ma poi non hanno il permesso di lavorare. Ci sono, naturalmente, delle professioni a cui si può accedere, ma per fare il medico, l’ingegnere o anche l’insegnante, bisogna essere cittadini libanesi.
Tornando alla Ghassan Kanafani Cultural Foundation, quanto è gravoso per lei mantenere viva la memoria di suo marito e insieme l’attivismo di intellettuale e politico?
Dopo che Ghassan è stato assassinato dalla bomba messa nell’automobile – con lui, purtroppo, c’era anche Lamis, la sua giovane nipote – con un gruppo di amici e familiari abbiamo deciso di dar vita a una fondazione per mantenere viva la sua memoria. Inizialmente si è trattato di raccogliere tutti i suoi scritti. Abbiamo pubblicato i primi tre volumi con i romanzi, i racconti e le opere teatrali e una decina d’anni fa anche un quarto dedicato alla letteratura, alla poesia palestinese e alla letteratura scientifica. Il quinto volume, invece, contiene i suoi articoli di politica e una selezione delle sue recensioni. Ghassan aveva 36 anni quando è morto, ma era già molto famoso non solo come scrittore di romanzi e racconti, anche come giornalista. Avendo preso la nazionalità libanese fu redattore per il settimanale al-Hurriyya e successivamente divenne caporedattore di politica e cultura di al-Hadaf. Prima della sua morte aveva già pubblicato diciotto libri.
Non solo noto giornalista e scrittore, aveva talento anche nel disegno…
Sì, per lui rappresentava un momento di relax. Non si è mai considerato un artista, benché abbia fatto delle buone cose. Amava disegnare e dipingere.
Il racconto «The Little Lantern» è accompagnato proprio dalle sue illustrazioni…
Lamis era la prima nipote. Per lei, ogni anno, realizzava piccoli libri e dipinti. Si tratta di una piccola storia che ora, grazie a Mario Rizzi, è diventata anche lo spettacolo teatrale The Little Lantern al Tournesol Theatre e la performance My dear Lamis a Dar El-Nimer For Arts & Culture.
Era già un’attivista politica prima di conoscere Ghassan Kanafani, tra l’altro suo padre aveva fatto parte della resistenza contro l’occupazione nazista della Danimarca… Cosa l’ha spinta a dedicarsi proprio alla causa palestinese?
Quando sono arrivata qui non sapevo quasi nulla della questione palestinese. Ne avevo sentito parlare per la prima volta nel 1960, durante un meeting in Jugoslavia. Decisi di saperne di più e andai a Damasco. L’idea era quella di proseguire per Beirut e da lì continuare il mio viaggio in Egitto. Un amico di Damasco mi diede una lettera da consegnare a Ghassan Kanafani appena arrivata a Beirut. Così andai alla redazione di al-Hurriyya e lo incontrai. Fu amichevole. Mi chiese quali fossero i miei propositi nel visitare il Libano e la Siria. Gli dissi che ero lì perché non sapevo molto della questione palestinese e volevo visitare i campi profughi. «La mia gente non è come gli animali nello zoo – mi rispose – Prima di andarci devi saperne di più».
Due mesi dopo vi sposaste…
Il mio viaggio sarebbe dovuto proseguire al Cairo, ma lui mi convinse a rimanere a Beirut. Iniziai a lavorare nei kindergarten. Questo è tutto. Sì, un paio di mesi dopo ci sposammo. Questo è stato il mio destino… (sorride).