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Riflessioni a caldo sullo sciopero nazionale in Colombia

José Antonio Gutiérrez Dantón 02/12/2019
Lo sciopero nazionale del 21 novembre in Colombia, che ha visto centinaia di migliaia, se non milioni di persone, occupare le strade e sfidare la repressione e il coprifuoco in tutto il paese, è senza dubbio una delle più importanti mobilitazioni degli ultimi decenni.

Tradotto da Alba Canelli
E’ notevole non solo per la sua natura massiva, ma anche per il suo protagonista: i settori popolari urbani, che non si erano mobilitati in questo modo dal periodo di lotta negli anni ’70 e ’80.
Anche se per decenni l’asse delle lotte popolari in Colombia è stato nel settore rurale (principalmente contadini e indigeni), è ora che i settori urbani stanno finalmente assumendo una leadership massiccia nelle lotte contro il regime. Questo processo non sarebbe stato possibile senza due condizioni: un sentimento generalizzato di disagio nella popolazione e una forza organizzativa in grado di convocare e sostenere questa lotta. In questo senso, il Comitato Nazionale per la Disoccupazione è un’istanza chiave; e all’interno del comitato, il ruolo guida svolto dal Centro Unitario dei Lavoratori (CUT ) deve essere riconosciuto come l’espressione più forte della classe operaia colombiana.
Inutile dire che i processi urbani popolari del passato sono stati in gran parte distrutti dal terrorismo di Stato e dai suoi tentacoli paramilitari. Le sinistre eredità dello sciopero civico del 1977 erano lo Statuto di sicurezza, con i suoi consigli di guerra verbali; pratiche come la sparizione forzata (Omaira Montoya è scomparso una settimana prima dello sciopero, e quindi questa pratica non si è fermata); e, infine, attraverso la proliferazione di apparati parastatali repressivi che hanno sostituito gli apparati repressivi ufficiali come principali strumenti di terrore. Non è un caso che oggi si senta un coro di marce che hanno già tolto tutto al popolo colombiano: anche la paura. In un paese dove il 66% della popolazione vive nelle città, la ricomposizione del movimento urbano è un fatto strategico, di incalcolabile importanza per qualsiasi progetto di trasformazione sociale.
Sfida collettiva al terrore
Proprio a causa di questa perdita di paura, di questa stanchezza generalizzata, il popolo colombiano ha saputo sfidare e affrontare la repressione in modo francamente eroico. Le incursioni, le minacce e le assemblee giudiziarie non sono riuscite a intimidire il popolo. Il coprifuoco e la militarizzazione sono stati ignorati in massa, le pentole e le padelle e persino i partiti di strada tenuti in aperta sfida a un’autorità che nessuno ora considera legittima. La resistenza popolare ha affrontato la violenza di stato ad un prezzo elevato. Dal primo giorno di proteste, ci sono stati tre decessi nella Valle del Cauca (due a Buenaventura, uno a Candelaria); oggi non sappiamo con certezza il numero di morti, ma continuano a sommarsi. Lo studente di Bogotà Dylan Cruz* è diventato un caso emblematico quando i cani rabbiosi dell’ESMAD, la temibile polizia antisommossa colombiana, gli spararono alla schiena, in testa nel modo più vile. Eppure il popolo non si è lasciato intimidire. Notte dopo notte, la repressione e il coprifuoco sono stati sfidati. Gli abitanti hanno dimostrato allo Stato di essere i padroni del loro quartiere, non 4.000 soldati con i loro veicoli corazzati. Il popolo ha rabbia ma anche gioia; l’establishment colombiano è spaventato e reagisce violentemente. Incredibile che Duque abbia voluto dare lezioni di diritti umani al venezuelano Maduro solo pochi mesi fa!
Volevano trasformare l’indignazione del popolo colombiano in paura. Non solo paura della repressione, ma anche del prossimo. Le macabre voci che circolano da venerdì sui social network, che annunciano l’arrivo del lupo – vandali da baraccopoli per derubare case borghesi – fanno parte di una guerra psicologica che si aggiunge a quella sporca guerra che il governo Duque ha dichiarato contro il popolo colombiano. Questi annunci erano pura strategia di panico, che non si è concretizzata, ma ha fatto sì che la gente di certi quartieri smettesse di protestare e diventasse vigilantes. E’ vero che in ogni massiccia protesta c’è il saccheggio; questo è vero in ogni epoca e in ogni paese. Ma mai, o molto raramente, le case vengono saccheggiate: i saccheggi di solito avvengono contro negozi o supermercati, dove si trovano le merci e dove non c’è il rischio di scontri. Ecco perché mi è sembrato così strano quando hanno iniziato a parlare di aggressioni a complessi residenziali. Tutto per distogliere l’attenzione dalla protesta, per generare paura e forse anche per generare violenza tra la gente comune, risparmiando alla polizia e all’esercito il compito di rompere la testa. Non è un caso che i gruppi di vigilanti che sono emersi “spontaneamente” di fronte a questi presunti saccheggi, come “Defendamos a Bogotá” o “Resistencia Civil Antidisturbios”, non sono altro che facciate per i gruppi di shock paramilitari pro-Uribe.
Queste strategie terroristiche non sono nuove. E’ noto che agenti dello Stato si sono infiltrati nelle proteste per causare oltraggi e incitare alla violenza gratuita. I leader della FECODE hanno detto di aver circondato alcuni di questi personaggi nelle dimostrazioni. Quando è stato chiesto a Condor Lozano di questa pratica, ha risposto con la celebre frase “l’unico crimine è quello di opporsi al governo; il resto sono stronzate”. I montaggi degli agenti di (in)sicurezza statali sono stati svelati da Juan Gossaín quando ha rivelato diversi documenti della DAS [Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, sostituito o rinominato Direzione Nazionale di Intelligence (DNI) nel 2011 da Uribe] in cui sono state rivelate alcune delle pratiche di varie operazioni contro l’opposizione a Uribe: sabotaggio, terrorismo, minacce, esplosivi, pressioni, discredito e così via. Essi stessi hanno usato questi termini nei loro documenti di intelligence [1]. Se in passato hanno usato questi mezzi, non c’è da stupirsi se oggi usano quel misto di guerra sporca e guerra psicologica per affrontare la legittima protesta del popolo. Fortunatamente, la gente ha reagito in tempo e non si è lasciata mettere gli uni contro gli altri in un confronto fratricida. Il popolo colombiano capisce molto bene che il suo nemico non si trova nel quartiere accanto.
Una rabbia che cresce da molti anni
Sebbene sia corretto comprendere gli eventi in Colombia dal punto di vista delle rivolte anti-neoliberali che hanno scosso Ecuador, Haiti e Cile, quello che è certo è che queste proteste sono anche il risultato di un processo di accumulazione interna di un decennio. Dallo sciopero dei tagliatori di canneti nella Valle del Cauca nel 2008, attraverso la minga (assemblea indigena), le proteste e gli scioperi contadini, il popolo colombiano ha costruito un ricco patrimonio di resistenze che sono alla base del presente sciopero. A queste esperienze vanno aggiunte le esperienze locali di centinaia di scioperi dei lavoratori di quest’epoca, con diversi livelli di combattività, così come le proteste ambientali, la cui importanza è stata radicata proprio nel fatto che sono servite da ponte tra il mondo rurale e il mondo urbano. Credo che questo aspetto delle proteste contro le megalopoli e l’estrattivismo non sia stato pienamente compreso, il cui esempio più evidente è stata la monumentale battaglia dei Tolimensi contro Coloso e Anglo Gold Ashanti, in cui la campagna e la città si sono unite nella stessa lotta. Un’altra pietra miliare di questa unità è stato anche lo sciopero agrario del 2013, che ha permesso a questi due mondi di unirsi per protestare contro il modello di sottosviluppo imposto dallo Stato.
Questa lotta è un ulteriore passo in un processo che dura a lungo. Dato l’umore del popolo colombiano, e data la goffaggine di un presidente che si è dimostrato molto efficace nel distruggere gli accordi di pace e massacrare i bambini, ma assolutamente incapace di ridurre la disoccupazione, sembra improbabile che Duque riesca a terminare i tre anni del suo mandato davanti a lui. Nonostante i suoi tardivi appelli al dialogo nazionale, dopo un anno di autismo assoluto, la gente non beve più le sue storie. Le organizzazioni non siederanno facilmente al tavolo delle trattative con un presidente esperto nell’annullare gli accordi passati e nel firmare impegni senza l’intenzione di mantenerli. La crescente richiesta che sentite per le strade è la rinuncia di Duque.
Le sfide da affrontare
Rimangono diverse sfide per il movimento popolare:
La prima è quella di trasformare la rabbia in organizzazione. Senza organizzazione non c’è niente. Ciò significa rafforzare i sindacati, significa formare comitati di studenti, pensionati, donne, tutti coloro che hanno un motivo per protestare e qualcosa da chiedere. La sinistra ha perseguito a lungo strategie populiste con le quali cerca di trasformare il malcontento in voti. L’esperienza colombiana dimostra che questo processo non funziona meccanicamente. Nel 1978, il malessere espresso nello sciopero civico del 1977 non si è trasformato in voti per la sinistra. Nel 2014 i disordini espressi nello sciopero agrario del 2013 non si sono tradotti in voti. L’elettoralismo e le lotte popolari hanno dinamiche diverse. Ciò che si combatte in strada deve essere vinto in strada. Se non si vuole perdere questo immenso accumulo, è necessario organizzare queste persone non come singoli elettori, ma secondo le loro richieste concrete e la loro capacità di pressione collettiva. L’azione diretta continua ad essere un meccanismo fondamentale per far progredire le lotte popolari.
La seconda è la capacità di mantenere la mobilitazione popolare e raggiungere la convergenza dei vari settori. Ciò richiede l’individuazione di diversi meccanismi che consentano ai diversi attori di partecipare al malcontento collettivo e di esprimersi. Marce, pentole e padelle, feste, persino gruppi di yoga che occupano le strade, qui tutto dimostra che c’è un popolo che è disposto a farsi sentire alle proprie condizioni. Questo pluralismo tattico è ciò che manterrà viva e fresca la mobilitazione. Questo è importante in una prospettiva temporale: il prossimo anno ci saranno mobilitazioni agrarie in tutto il paese, e per realizzare i cambiamenti strutturali e sistemici che le classi popolari colombiane richiedono, sarà fondamentale che la resistenza dei contadini con quella dei settori urbani sia in convergenza. Questa convergenza si è verificata raramente nella storia colombiana.
Una terza sfida è quella di mantenere l’unità di movimento. Per nessun motivo il Comitato Nazionale per lo sciopero può essere interrotto. L’oligarchia, tradizionalmente, ha usato la strategia della divisione e della sconfitta per dominare il popolo e ha avuto successo nell’attuazione di questa politica. Per convincersi di questo basta pensare allo sciopero agrario del 2013, una formidabile mobilitazione che ha finito per essere frammentata in diversi tavoli di negoziazione divisi per regione e persino per settore economico. Alla fine delle trattative, anche il collettivo contadino si era sciolto per cedere il passo a gruppi malleabili, come i coltivatori di patate, caffè, cipolla e caseifici, ecc. Il tutto ulteriormente diviso per regioni, dipartimenti o comuni. Così tutta questa forza si è dispersa e il movimento è stato contenuto. Per i due anni successivi, questo movimento non si è battuto contro il modello, ma contro l’accesso a progetti produttivi che non servivano nemmeno a migliorare la situazione delle campagne. Dobbiamo imparare che qui l’unità non può essere messa a rischio per nulla. Lo studente, il professore, il proprietario della casa, il lavoratore, il contadino, il pensionato, hanno tutti esattamente gli stessi problemi in questo modello economico.
L’ultima sfida è proprio quella di convertire le richieste specifiche in una proposta di modello alternativo che modifica le fondamenta che rendono necessario per la maggioranza di un paese ricco sopravvivere al costo di ogni tipo di acrobazie, mentre una piccola minoranza vive in una ricchezza oscena. Qui gli slogan non bastano ed è necessario pensare a proposte concrete che ci permettano di superare quel capitalismo che oggi divora le viscere del paese, che deforesta l’Amazzonia, che prosciuga le brughiere, che non garantisce il futuro alla stragrande maggioranza dei colombiani. Non è più possibile cercare di continuare a legittimare, attraverso il negoziato, uno Stato e un modello incapace di generare risposte al culmine della crisi che si sta vivendo. L’iniziativa di oggi riposa nel campo popolare. Speriamo che i processi organizzativi sappiano mantenere questa iniziativa nei prossimi giorni e mesi.
Nota
1] Per rinfrescare la memoria, c’è un articolo che ho scritto con un link al discorso di Juan Gossaín, trascritto su https://www.anarkismo.net/article/16405