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Retromarcia Anp, ora accetta fondi palestinesi decurtati da Israele

Michele Giorgio 7 ottobre 2019
Otto mesi fa il presidente Abu Mazen aveva proclamato «Vogliamo i nostri soldi fino all’ultimo centesimo, tutto o niente». Il probabile crollo dell’Anp per mancanza di fondi lo ha costretto a fare un passo indietro.

«Vogliamo i nostri soldi fino all’ultimo centesimo, tutto o niente. Non ci piegheremo mai a questa inaccettabile decisione di Israele». Furono queste, otto mesi fa, le frasi pronunciate dal presidente dell’Anp Abu Mazen in reazione al passo arbitrario fatto da Netanyahu di defalcare dai rimborsi doganali spettanti mensilmente al governo palestinese (in media 170 milioni di dollari) la quota corrispondente all’ammontare dei sussidi mensili (circa 12 milioni) che l’Anp versa ai prigionieri politici e alle famiglie dei martiri, i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. Per Netanyahu quei fondi sono una «ricompensa ai terroristi». Per Abu Mazen sono un diritto per coloro che si battono e muoiono per l’indipendenza palestinese. Parlando di recente all’Onu, il presidente dell’Anp si è detto sicuro che «la comunità internazionale non accetterà la decisione di Israele» e ha lodato «i nostri onorevoli martiri, i prigionieri coraggiosi e gli eroi feriti». Ora, a quanto pare, ha cambiato idea.
L’Anp ha annunciato di aver raggiunto un accordo di principio con Israele, dopo l’incontro a metà settimana tra il ministro palestinese per le questioni civili Hussein al Sheikh e il ministro israeliano delle finanze Moshe Kahlon. Un comitato congiunto ha cominciato a mettere su carta i termini del compromesso. Ma non c’è accordo sulla questione centrale dei fondi per i detenuti e le famiglie dei martiri. Israele insiste per trattenere quella somma dal totale dei rimborsi ma nel frattempo è pronto ad inoltrare all’Anp la maggior parte dei dazi doganali raccolti in otto mesi. Si tratta di centinaia di milioni di dollari. Un alto funzionario israeliano ha detto alla tv Channel 13 che nell’incontro tra Kahlon e al Sheikh le due parti «hanno concordato di non essere d’accordo».
Qualcuno parla di una «scappatoia» che permette di incassare i rimborsi, seppur ridotti, e di «salvare la faccia» al presidente palestinese e al primo ministro Mohammed Shtayyeh. «Non credo che siano riusciti a salvare la faccia» ci dice Hamada Jaber, un analista del Centro di studi e ricerche statistiche di Ramallah. «Il presidente aveva caricato il suo rifiuto (della decisione israeliana) con toni molto forti, aveva battuto il pugno sul tavolo di fronte ad una palese violazione delle intese raggiunte in passato. Non gli sarà facile spiegare la retromarcia». Secondo Jaber «l’accaduto non fa altro che dimostrare la dipendenza assoluta dell’Anp da Israele» e che «senza il trasferimento (da Israele) dei fondi derivanti dalla raccolta dei dazi doganali sulle merci e le transazioni commerciali riguardanti la Cisgiordania e Gaza, l’Anp non può esistere».
Ne risentirà ancora una volta la credibilità dell’Anp ma il compromesso al ribasso difficilmente provocherà proteste e manifestazioni palestinesi. Il mancato arrivo dei fondi ha costretto il governo Shtayyeh a tagliare gli stipendi di decine di migliaia di dipendenti pubblici in Cisgiordania, dove la disoccupazione è stimata al 20%. Migliaia di famiglie in questi mesi si sono indebitate, altre non sono riuscite a far fronte alle rate di prestiti avuti dalle banche e altre ancora hanno avuto problemi persino con i consumi alimentari. Il welfare è stato ridotto al minimo e alcuni servizi pubblici sono giunti vicini al collasso. Anche Netanyahu però non ha potuto evitare il compromesso. La stabilità dell’Anp e la continuazione della cooperazione di sicurezza sono centrali per il controllo israeliano della Cisgiordania.