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Gerusalemme, la scomparsa della memoria tra nuovi turisti e nuovi consumi

Francesca Merz 31 ottobre 2019
La mummificazione e lo svuotamento della Città vecchia sta alla base di un progetto politico e sociale preciso. La sostituzione di negozi, attività culturali, centri di ritrovo emargina la popolazione palestinese, in particolare i giovani, spingendoli fuori dalla loro comunità. Un fenomeno globale che qui viene descritto come positivo.

Negli ultimi anni i profondi cambiamenti della città di Gerusalemme hanno portato con sé pareri contrastanti: se da una parte continua a persistere l’idea di Israele come fonte di progresso costante, dall’altra cominciano ad alzarsi, tiepidamente, dibattiti internazionali sulla mercificazione e totale mummificazione della città, che appare sempre di più svuotata della sua memoria, in favore della costruzione di una “città museo” priva di essenza vitale, e circondata completamente da centri commerciali e grandi torri di cristallo.
E se è vero, come è vero, che il rischio di una “evoluzione” nella quale le città sempre di più perdono nei loro centri storici il tessuto sociale e gli spazi comuni, rientra in un fenomeno globale, a Gerusalemme lo svuotamento della Città Vecchia e la distruzione della memoria collettiva sta alla base di un precisissimo progetto politico e sociale da parte dell’autorità israeliana, che garantisce , con metodi apparentemente non violenti, la totale distruzione del tessuto sociale palestinese.
La Città Vecchia, nel piano strategico del Governo, diventerà un parco giochi a uso e consumo del turista, mentre intorno continuano a crescere centri commerciali e vie dello shopping.
Il processo di modifica di Gerusalemme è ovviamente presentato dalle autorità israeliane come un percorso nel progresso, che comprende l’apertura di esercizi commerciali alla moda, catene internazionali di cibo biologico, con insegne dai toni green con menu diet/bio/gluten free e con localini in legno della Thailandia, in cui spiccano libri e caffè, qualche volta perfino dell’humus, ovviamente humus israeliano, ma pare che presto questo luna park farà spazio a modelli turistici ancora più radicali, portando le carovane dei turisti in arrivo a vivere esperienze completamente controllate sia dal punto di vista economico, che contenutistico.
La mummificazione dei centri storici, ovvero quel processo di tassidermia urbana per il quale i luoghi vengono svuotati dalle loro memorie, per sostituirle con altri contenuti, ha nello Stato israeliano un promotore tra i più attivi del pianeta. Il processo, come facilmente comprensibile, porta a ricadute immediate sull’economia palestinese, e, in seconda istanza, come avviene in altri casi di gentrificazione, all’impoverimento della struttura sociale dei quartieri e delle comunità di riferimento; e anche in questo caso il processo picchia duro su tutte quelle associazioni, circoli, piccole società sportive, associazioni teatrali e in linea generale comunità cittadine palestinesi radicate nel centro storico. 
Tra i vari problemi che vivono i giovani palestinesi c’è la totale impossibilità di fare manifestazioni pubbliche, di riunirsi in comitati, di ritrovarsi in luoghi di condivisione di idee e di cultura, per ragioni di sicurezza non è loro concesso fare rappresentazioni teatrali, né manifestazioni pubbliche, se non dietro permesso dell’autorità israeliana, che ovviamente nega la maggior parte delle manifestazioni, anche le più semplici, anche i piccoli campionati di calcio tra scuole o gli spettacoli teatrali o musicali.
Non ci sono inoltre luoghi per ritrovarsi, anche in questo caso la distruzione di tutti i luoghi di ritrovo, di naturale cittadinanza, è diretta emanazione dell’occupazione, ma il turismo di massa e la massiccia disneyzzazione della città contribuiscono ad aiutare notevolmente le autorità nell’obiettivo finale, risultando estremamente funzionali allo scopo di far abbandonare il centro di Gerusalemme alla comunità palestinese.
Questi fattori economici, che risultano in un fenomeno globale, sono quanto mai incentivati dal governo israeliano, in uno stravolgimento culturale che snatura completamente la cultura di riferimento del territorio, sostituendola etnicamente e culturalmente con una cultura parallela e preponderante, un apartheid portato avanti con gli strumenti della globalizzazione economica. Come ricorda un imprescindibile testo di Neve Gordon dal titolo L’occupazione israeliana, “Israele oggi agisce principalmente distruggendo le garanzie sociali più vitali e riducendo i membri della società palestinese a quello che Giorgio Agamben ha chiamato homo sacer, persone a cui può essere tolta impunemente la vita”.
La cittadinanza e lo sviluppo delle comunità non si mortificano con la sola violenza, i metodi anzi più efficaci sono come sempre quelli economici. Solo alcuni dati, a dimostrazione di quanto detto: le autorità di occupazione israeliane hanno chiuso circa 430 attività commerciali palestinesi nella Città Vecchia di Gerusalemme, negli ultimi due decenni. In relazione a questo e ad altri continui soprusi portati avanti dalle autorità è intervenuto anche il direttore del Centro per i diritti sociali ed economici di Gerusalemme, Ziyad Al-Hammouri, che ha fatto notare la strategia delle autorità di occupazione israeliane, che non effettuano chiusure dirette, ma rafforzano le restrizioni imposte ai palestinesi costringendoli a chiudere i loro negozi.
Le restrizioni e le misure, ha affermato Al-Hammouri, includono tasse più elevate per i proprietari di negozi palestinesi rispetto ai proprietari ebrei, così come l’incentivo turistico all’acquisto solo in parti di città e luoghi gestiti da ebrei, la modifica degli itinerari turistici cittadini e la chiusura di ogni accesso libero dalla Cisgiordania.
Molti proprietari di piccole botteghe del centro storico non sono più in grado di raggiungere i loro negozi da quando, nel 2002, è stato eretto il Muro di separazione. Le rigide misure israeliane hanno portato alla chiusura dei negozi, con il conseguente svuotamento del centro storico di botteghe storiche.
Questo schema costantemente perpetrato in tutta Gerusalemme si riverbera in maniera catastrofica sulla popolazione palestinese, anche nella formazione dei giovani palestinesi: molti di loro decidono a un certo punto, per mancanza di alternativa, di andare a lavorare nei supermercati israeliani, nelle ditte israeliane, nel commercio israeliano o nel turismo israeliano; le scuole professionali, che insegnavano le antiche professioni e che tentavano di mantenere in vita le memorie dell’artigianato nella Città Vecchia oggi hanno più insegnanti che studenti, poiché non esiste alcun incentivo per la conservazione di queste memorie, che vengono anzi ostacolate dall’autorità israeliana in ogni modo.
Anche l’abbandono scolastico è alle stelle e il problema della droga tra i più giovani palestinesi, specie coloro che vivono a Gerusalemme, è una piaga sociale in costante aumento, andando a creare vere e proprie sacche di cittadini marginalizzati, che possono poi facilmente essere identificati come “problematici” dalle autorità israeliane.
Volendo dunque sintetizzare, possiamo arrivare ad affermare che quello che accade normalmente nelle nostre città, ovvero l’apertura di grandi catene di centri commerciali, spesso a opera di imprenditori stranieri, a Gerusalemme viene identificato come un processo di progresso, il progressivo cambio dei consumi della popolazione (sia palestinese che israeliana) ha portato come in tutto il mondo a preferire fare la spesa in grandi centri commerciali periferici piuttosto che nei piccoli negozietti del suq.
E questo fenomeno, che più o meno a livello globale è riconosciuto come un fenomeno da combattere, poiché svuota totalmente i centri cittadini di attività storiche, ed è riconosciuto come una perdita fondamentale della cultura immateriale dei luoghi, per Gerusalemme, dalla maggior parte della comunità internazionale, è invece avvalorato e incentivato come fosse un passaggio evolutivo positivo per i territori di riferimento, come se solo ed esclusivamente per quella parte di mondo si potesse tornare al boom economico senza sapere che cosa esso comporterà nel futuro, ma non dobbiamo nemmeno arrivare a preoccuparci del futuro, i danni sul territorio sono già visibilissimi anche nel presente.
Il fatto che la classe che paga maggiormente questo sistema economico corrisponda anche etnicamente alla fascia di persone che gli israeliani vorrebbero eliminare dalle strade della città e dallo Stato israeliano, rende questa trasformazione quanto mai auspicata da tutti i tifosi del sionismo spinto, i soli rimasti su suolo israeliano, non essendoci più alcuno spazio nella politica di Israele per istanze di sinistra, egualitarie, verdi e attente al clima.
Molte attività rimangono coraggiosamente aperte senza che siano vantaggiose economicamente, ma solo per esserci, una resistenza dunque che essendo resistenza culturale e popolare per salvaguardare la propria storia, diventa anche resistenza ad una formula economica.
Risulta piuttosto chiaro come la mummificazione di Gerusalemme rientri nelle politiche di apartheid utilizzate da Israele. Molti palestinesi si vedono costretti a lasciare una Gerusalemme oramai del tutto modificata perché l’apertura degli esercizi commerciali non è più sostenibile. Inoltre, nel momento in cui gli esercizi commerciali chiudono, lasciando serrande chiuse nel centro della città, Israele sequestra e occupa gli esercizi commerciali che non possono più permettersi di affrontare le spese di affitto e manutenzione, pronti a sostituirli nel futuro con nuovi negozietti pieni di chincaglierie turche o cinesi a basso costo, per nuovi affittuari ebrei, come sta avvenendo.
Dunque, nel meccanismo drammatico della desertificazione dei luoghi storici si annida ciò che più di ogni altra cosa fa comodo allo Stato di Israele, recuperare terra, lotti, esercizi commerciali, svuotare i luoghi storici per poterli riempire con una nuova narrazione, cancellare la stratificazione culturale.
Viene così ad essere distrutta la dignità, la socialità, l’esistenza stessa degli spazi pubblici di aggregazione, a favore della costruzione di grandi parchi a tema archeologico o presunto tale, spazi verdi e turistici per grandi comitive e pullman; in questo contesto rientra la grande operazione de “la città di Davide”.
La modifica dei flussi turistici della città, ovviamente celata dall’ idea di rendere maggiormente fruibile e agevole l’accesso alla città e la conoscenza delle culture, non fa che incoraggiare il solo turismo di massa, controllato e controllabile sia nei suoi percorsi che nei luoghi in cui esso riversa i propri soldi, con il risultato di distruggere del tutto un’idea di turismo sostenibile ed etico, in funzione di una ricostruzione di presunti resti archeologici che rimandano alla storia ebraica, senza tener conto, non solo della stratificazione culturale del territorio, ma anche dei criteri scientifici di scavo e rinvenimento, con buona pace della comunità scientifica internazionale.
Quello che ci deve far riflettere, nei restauri in questi territori, è che per trovare un cantiere di restauro di una chiesa bizantina (epoca non utile ai fini propagandistici dello Stato), bisogna andare a Gaza. Nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, gli studiosi dell’Università Islamica di Gaza lavorano ogni giorno, in un progetto che vede coinvolti anche i francesi legati all’Ecole Biblique domenicana di Gerusalemme, per tramandare un patrimonio ortodosso.