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Che mangino pure la torta*: un tuffo nell’umanesimo di Edward Said

Ted Steinberg 10/09/2019
Era il 27 aprile 1974, il giorno del mio bar-mitzvah. Il ricevimento non era straordinario eccetto il dolce, una grossa torta gialla in mio onore che aveva la forma dello Stato di Israele. Adoravo le torte, soprattutto le torte gialle.

Tradotto da Silvana Fioresi

Editato da Fausto Giudice
Non so chi, tra gli invitati, abbia avuto un pezzo della Cisgiordania. Ma queste fette erano ombreggiate da tratteggi formati da linee di glassa marrone. Il pasticcere doveva aver studiato la storia del Medio Oriente con un corso serale perché non solo la Cisgiordania, ma anche altre regioni contestate come il Sinai, le alture del Golan, e anche la piccola striscia di Gaza – tutte occupate da Israele durante la guerra dei Sei Giorni del 1967 – erano state delimitate. Delle mini bandiere israeliane erano state piantate nella torta per sottolineare il trionfo del popolo ebraico in quello che è certamente uno dei pezzi di terra più tesi del pianeta. La ragione per la quale il dolce era in parte ombreggiato non mi ha mai attraversato lo spirito.
Avevamo imparato alla scuola ebraica che Israele era una terra senza popolo per un popolo senza terra. Perfetto, pensai. Le persone mi hanno offerto dei regali per il bar-mitzvah, tra cui dei certificati per alberi piantati laggiù in mio onore. Una terra senza popolo mi faceva pensare alla sterilità. Gli alberi sembravano essere un’idea giudiziosa.
Nel 1976 ho visitato Israele e sono stato scortato da un certo Alex che, per ragioni comprensibili, mi chiamava col mio nome ebraico. Abbiamo visitato un certo numero di posti segnati dai tratteggi sulla torta, tra cui Hebron, in Cisgiordania, e le alture del Golan.
Quando siamo arrivati sull’altura del Golan, sono sceso dalla macchina e ho vomitato, ma non era un mio modo di fare una dichiarazione politica. Alex aveva il piede pesante. Ho visto degli alberi lungo la strada, ma nessuno che fosse stato piantato in mio nome, mentre sfrecciavamo verso un kibbutz chiamato Kfar Giladi, situato vicino alla frontiera con il Libano. Il giorno dopo abbiamo viaggiato verso sud fino a Gerusalemme attraverso quella che Alex chiamava una “zona liberata”. Sono sicuro che non avevo la minima idea di ciò che voleva dire. Volevo solo arrivare a Gerusalemme senza vomitare di nuovo.
Ho saputo che, quando i sionisti sono arrivati, hanno trovato una terra vuota, una landa desolata che aveva un disperato bisogno di essere migliorata. Ed è esattamente quello che i laboriosi ebrei hanno fatto, fare fiorire il deserto. Ovunque andassimo, Alex raccontava sempre la stessa storia: prima dell’arrivo degli ebrei, qui non c’era niente. Ora, guarda qua. Un paesaggio magnifico e addomesticato che fa le fusa al ritmo della vita moderna.
All’università ho scoperto che c’erano queste genti. Chiamateli i palestinesi. Golda Meir, Primo Ministro all’epoca del mio bar-mitzvah, ha fatto questa celebre dichiarazione che il popolo palestinese, quanto a lui, “non esisteva”. Nessuno ha mai parlato dei palestinesi in sinagoga o durante il viaggio in Israele. Ho sempre sentito parlare degli arabi, mai degli arabi palestinesi.
C’era un tipo che girava a Cambridge, nel Massachusetts, vicino al posto dove sono andato all’università, che parlava regolarmente di questo misterioso popolo palestinese. Credevo che si chiamasse Norm, di Norman Chomsky.
Chomsky parlava dei palestinesi come di un popolo autoctono. Nessuno me l’aveva mai detto. Diceva che i palestinesi avevano un diritto legittimo alla mia torta del bar-mitzvah, anche se non l’aveva proprio detto in questo modo.
Passeggiavo in una libreria di Cambridge quando sono capitato su un libro intitolato The Fateful Triangle: The United States, Israel & the Palestinians” (1983). L’autore era Noam Chomsky, professore al M.I.T., la stessa persona che avevo sentito un giorno dissertare sui palestinesi. Aveva sicuramente una visione differente del ruolo di Israele nel mondo rispetto a quella di Sanford Saperstein, il rabbino di casa mia, che chiamava Israele la sola democrazia in una regione in preda a degli scontri dove i terroristi cercano di gettare gli ebrei in mare.
Qualche anno più tardi, sono capitato su “Blaming the Victims: Spurious Scholarship and the Palestinian Question” (1988). Uno dei coredattori era un certo Edward Said.
Nato a Gerusalemme-Ovest nel 1935, Said aveva lasciato la Palestina per Il Cairo nel 1947. Quattro anni dopo, si trasferisce negli USA, dove i suoi genitori hanno delle conoscenze (il padre di Said ha studiato alla Case Western Reserve University, dove io insegno attualmente). Bambino trasgressivo che ha preso una buona dose di botte, Said ha frequentato un pensionato nella valle del fiume Connecticut, un ambiente naturale che, essendo lui cresciuto nel deserto, sembrava aumentare il suo sentimento di alienazione («la neve significava una sorte di morte », scrisse più tardi). Dopo aver studiato a Princeton e a Harvard, poi arrivato alla facoltà di letteratura inglese e comparata dell’Università Columbia nel 1963, Said, che incontrò Chomsky nel vivo delle proteste contro la guerra del Vietnam, diventò uno degli intellettuali dissidenti più importanti del Novecento.
Uomo immensamente erudito, che considerava l’intelletto come la migliore difesa dell’umanità contro « un mondo astorico e smemorato », Said ha preso una svolta a sinistra dopo la guerra dei Sei Giorni. Si ricorda di aver trovato offensiva la reazione calorosa di Martin Luther King alla vittoria di Israele nella battaglia, senz’altro perché era fondata sull’ipotesi che i palestinesi semplicemente non esistevano. Come lo scriveva Said nel 1968, «la Palestina è immaginata come un deserto vuoto che aspetta di fiorire, non avendo i suoi abitanti, dei nomadi senza importanza, nessuna rivendicazione stabile sulla loro terra e quindi nessuna permanenza culturale ». Per questo tentativo e altri tentativi simili che miravano a rovesciare le opinioni dell’establishment, Said è stato trattato da antisemita e da “professore del terrore”. 
Said era la prova vivente che la mia istruzione alla scuola ebraica non era in nessun modo un’istruzione. Una terra senza popolo? Vuota? I palestinesi non esistono? L’offensiva di relazioni pubbliche di Israele, che mirava a rovesciare il fatto che la fondazione del paese implicava l’espropriazione dei popoli autoctoni, ha funzionato perfettamente. 
Un anno dopo il mio bar-mitzvah, Said aveva testimoniato davanti a un comitato del Congresso. Immaginate, dice, “che, per crudele ironia, voi vi ritroviate dichiarati stranieri nel vostro proprio paese. È l’essenza stessa del destino dei palestinesi nel XX° secolo”. Il titolo delle sue memorie “Out of Place” del 1999 [Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia. Feltrinelli, 2009] fa riferimento alla sua vita trascorsa a lottare contro il dolore dell’esilio.
L’umanità di Said gli ha permesso di vedere la lotta in questo angolo del mondo sotto termini che catturano la vera tragedia in causa. Come lo scriveva: » La presa di coscienza nascente era quella di due popoli chiusi in una terribile lotta sullo stesso territorio, in cui l’uno, ricurvo sotto un orribile passato di persecuzioni e stermini sistematici, era in posizione di oppressore verso l’altro popolo”. Pur difendendo i diritti dei palestinesi, Said ha sempre riconosciuto il fatto che il sionismo ha evoluto in questo modo a causa della persecuzione e del genocidio che gli ebrei hanno subito.
Dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982, Said ha scoperto qualcosa che Chomsky ignorava: che malgrado il disequilibrio del potere, i palestinesi avevano modo di agire, come l’ha dimostrato la Prima Intifada, un’insurrezione anticoloniale sostenuta che ha cominciato nel 1987, l’anno prima che io mi mettessi a leggere Said. 
L’intelligenza di Said, il suo impegno politico e, soprattutto, le azioni dei palestinesi ordinari in cerca di liberazione, hanno contribuito a cambiare il modo in cui le autorità israeliane consideravano il popolo palestinese – non era più inesistente, poiché come un movimento di resistenza non avrebbe una certa identità unificatrice? Negli anni ’80 i dirigenti israeliani hanno iniziato a qualificare i palestinesi « sciacalli » (generale Moshe Dayan), « cavallette » (primo ministro Yitzhak Shamir), “vermi” (primo ministro Menachem Begin) e “scarafaggi” (generale Rafael Eitan). «Forse un giorno potremo ottenere lo statuto di bestiame o di scimmie ».
Nel 1988, Said ha partecipato ad un evento a New York col filosofo Michael Walzer dell’Institute for Advanced Study. Un ebreo conosciuto per le sue posizioni progressiste, Walzer ha criticato Said di tornare sempre sul passato mentre, secondo lui, la questione che riguardava i palestinesi era il futuro. Said è rimasto senza parole. In quel momento una donna del pubblico, Hilda Silverstein, ha attaccato dicendo a Walzer : « Come osa dire una cosa del genere? Visto che, di tutti i popoli nel mondo, noi [gli ebrei, NdT] siamo quelli che, più di tutti al mondo, chiediamo di ricordarsi del nostro passato. E lei dice a un palestinese di dimenticare il passato ? Come osa?»
E solo durante la serata del 12 giugno 1992, quarantacinque anni dopo esserne partito, tornò al suo luogo di nascita. Non poteva in nessun modo conoscere la storia della mia torta e quindi saltellare nel suo paese natale dove io mi ero sentito estremamente ben accolto.
Mi chiedo se mi ricorderei della mia torta di bar-mitzvah senza i fotografi dei Field Studios di Brooklyn. Hanno prodotto un piccolo monumento in onore dell’evento: un album spesso 10 cm con pagine dai bordi dorati di 3 mm che immortalano il dolce. Ci sono io, vestito col mio primo completo, con un grosso farfallino fucsia (con pinza), che esplode sotto il mento. Il fotografo mi ha fatto mettere in posa con i gomiti appoggiati al tavolo, così sono stato costretto a piegarmi e a contemplare lo Stato di Israele in espansione, rappresentato con una glassa beige, marrone e rossa.
Durante gli anni diventati poi decenni, l’album del bar-mitzvah è rimasto sullo scaffale della sala della mia casa d’infanzia. Erano gli anni inter-torte in cui il dolce è entrato nei recessi della mia storia personale. Ed è lì che è rimasto fino al momento in cui mi è tornato in mente, nella primavera del 2010.
In quel momento della mia vita ero professore all’università da più di due decenni. Ero ad una triste riunione sull’opportunità di includere un donatore nel comitato di assunzione di una università per un posto di professore di studi ebraici quando ho lanciato la discussione sulla mia torta vecchia di 35 anni. Il comitato di assunzione comprendeva anche, stranamente, un membro della facoltà di fisica che, guarda caso, era sionista e che non aveva nessuna abilitazione accademica per intervenire nella questione. 
Edward Said ha denunciato molto tempo fa i modi in cui gli intellettuali hanno contribuito a legittimare lo status quo. Permettere a un donatore e a uno scientifico puro di aiutare ad assumere un ricercatore in scienze umane era una ricetta per una maggiore legittimazione. Il mio modo di attirare l’attenzione su questo procedimento scioccante era di evocare l’odiosa torta.
Apparentemente la volgarità del mio dolce di terra santa è caduta nel vuoto, perché, qualche anno più tardi, nel 2015, due donatori della Federazione ebraica di Cleveland – impegnati secondo le loro stesse parole a «sostenere Israele come Stato ebraico e democratico » – hanno partecipato ad un’altra assunzione universitaria in studi ebraici. Questo posto di professore era finanziato da una donazione, che rendeva obbligatoria la partecipazione del donatore, e nominato in onore di Abba Hillel Silver. Come dice Walter Hixon in “Israel’s Armor: The Israel Lobby and the First Generation of the Palestine Conflict” (2019), Silver ha giocato un ruolo chiave per unire l’identità ebraica al progetto sionista ed è diventato uno degli architetti della lobby israeliana che ha lavorato senza sosta per compromettere la ricerca della giustizia del popolo palestiniano. Era proprio necessario che i donatori della Federazione ebraica intervenissero nel verificare le richieste di lavoro? Per fortuna Said, che in quel momento era interrato fra le montagne del Libano, si è perso tutto. 
Recentemente ho inserito la torta colonialista in una conferenza intitolata «Chi ha paura di Edward Said ?” La presentazione tenta di affrontare questa domanda offrendo l’esempio del mio stesso cambiamento personale nel mio modo di pensare a Israele e ai palestinesi, per dimostrare che la nostra versione della verità non è semplicemente modellata dalla logica e dalle dimostrazioni, ma dalle nostre esperienze nella vita. La mia torta era il perfetto contrappeso alla visione di Said di un mondo più equo e più democratico basato sull’accesso condiviso alla stessa terra, l’autodeterminazione e la mutualità. Le bandiere e le righe sulla torta parlano di nazionalismo e di possesso, di ciò che ci separa gli uni dagli altri, di un mondo buio disperato e fallito.
Chi ha paura di Edward Said? La lista è lunga e va ben oltre celebrità come Alan Dershowitz che ha approfittato della morte per il cancro di Said nel 2003 per paragonarlo a Meir Kahane, il fondatore della Jewish Defense League, un violento gruppo anti arabo e nazionalista ebreo, l’analogia probabilmente più torturata mai concepita. 
Più o meno nello stesso periodo il neoconservatore Martin Kramer ha ugualmente dato la colpa a Said, qualificato “palestinese leso”. Kramer ce l’aveva con Said per aver aiutato a far nascere gli studi postcoloniali, che esaminano l’imperialismo e le relazioni di potere radicalmente disuguali nella formazione del mondo. Nella strana interpretazione di Kramer, il postcolonialismo ha messo sottosopra gli studi sul Medio Oriente e li ha spinti in una spirale che ha finito per eliminare la cosiddetta “obiettività disinteressata”. A quanto pare non è mai venuto in mente a questo tipo, che ha degli incredibili antecedenti, con tre diplomi diversi di Princeton, che la politica e l’erudizione non sono due scompartimenti separati nel gioco della vita intellettuale. “Nessuno ha mai immaginato un metodo per separare l’universitario dalle circostanze della vita», scriveva Said nel suo classico “Orientalismo” del 1978. Questo spiega perché Kramer è associato al Washington Institute for Near East Policy, un gruppo di riflessione strettamente legato all’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), un gruppo che si presenta come “la lobby pro-israeliana d’America”.
Sono il genere di casini che scoppiano periodicamente nel mondo accademico; è facile smentirli. Ma poi ho scoperto che un ex allievo di Columbia, che aveva studiato inglese, rifiutava di seguire dei corsi di Said perché il suo rabbino lo dipingeva come il diavolo incarnato. Lo studente, che ha continuato gli studi all’Università Emory, alla fine ha scoperto la verità su Said. Alla fine, lo studente si sentiva talmente colpevole del suo gesto di disprezzo che, quando Said si è recato in visita a Emory, ha cercato di scusarsi facendo di tutto per convincere Said a lasciarlo condurlo all’aeroporto.
Ad un altro estremo, per quanto riguarda l’apertura mentale, si poneva un liceale del Bronx che ha passato l’esame di inglese di livello avanzato nel 2010. L’esame comprendeva la seguente citazione di Said: “L’esilio, se costituisce stranamente un soggetto di riflessione affascinante, è terribile da vivere. È l’eterna fessura scavata tra l’essere umano e la sua terra natale, tra l’individuo e la sua vera casa, e la tristezza che implica è insormontabile”. Non c’è nessun riferimento a Israele o alla Palestina in questo passaggio. Ma la semplice menzione del nome di Said ha spinto lo studente a opporsi alla questione, qualificandola molto rappresentativa dell’utilizzo diffuso dell’istruzione e degli esami come piattaforma di propaganda anti Israele. 
Al di sopra di tutto, il più grande impegno di Said era l’umanesimo, che definiva come il tentativo “di sciogliere le manette mentali di Blake**, per poter utilizzare il proprio spirito storicamente e razionalmente con fini di comprensione riflettuta e di autentica divulgazione”. Abbracciare l’umanesimo è rifiutare il potere dello stato in nome del pensiero critico. Ciò significa, come scrive in fin di vita, « un processo senza fine di divulgazione, di scoperta, di autocritica e di liberazione ». Said teneva l’umanesimo in una così grande considerazione che lo vedeva come “la sola, anzi mi spingerei fino a dire l’ultima resistenza possibile contro le pratiche inumane e le ingiustizie che sfigurano la storia umana”. La citazione è inserita in un murale eretto all’Università Statale di San Francisco in onore di Said. 
L’umanesimo non consiste nell’unirsi intorno ad una bandiera o «alla guerra nazionale del momento », come ha detto Said un giorno. Non si tratta di tagliare una torta che celebra l’espropriazione e l’esilio, ma di quello che ci unisce come esseri umani in questo pianeta azzurro pallido: il nostro attaccamento al luogo, i nostri legami gli uni con gli altri, la nostra capacità a provare delle emozioni e a fare esperienza di un’umanità essenziale, qualunque siano le nostre differenze.
NdlT
*La celebre frase di Maria Antonietta: « Ma che mangino pure della brioche » si traduce in inglese con « Let them eat cake ». Visto il filo conduttore dell’articolo, ho conservato il termine “torta”.
** Riferimento al poema LondrA, di William Blake (1794) :
In every cry of every Man,
In ogni pianto di ogni uomo,
In every Infant’s cry of fear,
In ogni pianto infantile di paura,
In every voice: in every ban,
In ogni voce, in ogni divieto
The mind-forg’d manacles I hear.
Sento le manette forgiate dalla mente.