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Spianata di Al Aqsa, scontri e tensione per cambiare lo status quo

Michele Giorgio 13 agosto 2019
GERUSALEMME. Domenica cariche della polizia e disordini sul sito islamico al centro dei disegni della destra religiosa israeliana finalizzati alla sua spartizione e alla ricostruzione del Tempio.

Ogni anno d’estate, da un decennio a questa parte, da quando Benyamin Netanyahu è a capo di maggioranze di destra estrema, la Spianata delle moschee di Gerusalemme diventa terreno di scontro, in apparenza religioso ma in realtà politico e diplomatico, in occasione della ricorrenza ebraica del Tisha B’Av. Quest’anno il giorno in cui gli ebrei ricordano la distruzione del primo e del secondo Tempio è coinciso con la festa islamica del sacrificio (Eid al Adha). Domenica i militanti della destra sionista religiosa e dei gruppi che chiedono la ricostruzione del Tempio e gli attivisti del movimento dei coloni, hanno chiesto di entrare nella Spianata per commemorare la distruzione del Tempio e per affermare, più di tutto, la sovranità israeliana sull’area che gli ebrei considerano Har ha-Bayit (Monte del Tempio), dove da 1300 anni sorgono le moschee di al Aqsa e della Roccia, terzo luogo santo dell’Islam dopo Mecca e Medina.
La concomitanza dell’Adha e del Tisha B’Av si è rivelata una miscela esplosiva. Gli scontri domenica sono cominciati intorno alle 9, dopo la decisione del governo – che in un primo momento aveva chiuso l’accesso a non-musulmani per evitare incidenti – di consentire l’ingresso alla Spianata anche per gli ebrei. Decine di palestinesi sono rimasti feriti o contusi dai proiettili di gomma e dai candelotti lacrimogeni sparati dalla polizia. Almeno quattro agenti sono stati feriti dagli oggetti lanciati dai palestinesi. Incuranti degli scontri, oltre 1700 i militanti della destra religiosa sono entrati sulla Spianata. La campagna elettorale – tra un mese si vota in Israele – è stata decisiva per spingere Netanyahu e il ministro per la sicurezza Erdan a dare il via libera al tour sulla Spianata già palcoscenico nel 2000 della “passeggiata” del leader della destra Ariel Sharon che accese la miccia della seconda Intifada.
Le continue “visite” al sito dei religiosi sionisti indica l’intenzione di modificare lo status quo della Spianata concordato da Israele con la Giordania, dopo l’occupazione della zona est (araba) di Gerusalemme, che assegna alle autorità islamiche la gestione e il controllo del sito religioso. Un primo serio tentativo c’era stato già due anni, quando il governo israeliano provò ad imporre, dopo l’uccisione di due poliziotti, l’installazione di metal detector agli ingressi della Spianata provocando forti proteste palestinesi. Il 21 luglio 2017, editorialista David M. Weinberg chiarì la posizione israeliana sulle pagine dei quotidiani Jerusalem Post e di Yisrael HaYom. «È tempo – scrisse Weinberg – di riconoscere che lo ‘status quo’ su Har HaBayit è morto… È tempo di livellare il campo di gioco. Israele dovrebbe mettere sul tavolo un piano per portare equità e correttezza all’amministrazione del Monte del Tempio: un piano per una condivisione della sovranità sul luogo più santo per il popolo ebraico. Ciò può essere realizzato sia attraverso un accordo sui tempi di preghiera simile a quello in atto nella Grotta di Machpela (Tomba dei Patriarchi) a Hebron, sia attraverso (la costruzione) di una sinagoga ai margini della vasta piazza (la Spianata) che non oscurerà le due grandi strutture (moschee) musulmane sul Monte del Tempio».
La destra religiosa perciò punta alla spartizione della Spianata. E come è accaduto a Hebron nel 1994, dopo il massacro di 29 fedeli musulmani da parte di un colono israeliano, potrebbe usare le tensioni crescenti tra ebrei e musulmani nella città vecchia di Gerusalemme e gli scontri come quelli di domenica sulla Spianata per ottenere un nuovo status quo. Avrebbe già mosso questo passo se non ci fossero sul tavolo le relazioni con la Giordania, il principale alleato nella regione di Israele nonché custode dei luoghi santi islamici e cristiani a Gerusalemme. Un atto unilaterale aprirebbe una crisi devastante con Amman che Israele non può permettersi.