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TURCHIA. Hasankeyf sott’acqua, Erdogan sommerge la storia

Chiara Cruciati 4 luglio 2019
La diga di Ilisu allagherà la millenaria comunità del sud-est. A rischio 199 villaggi, 80mila le persone cacciate. Ma non è troppo tardi: la lotta comune di attivisti e residenti.

Hasankeyf non è un museo un cielo aperto. È un luogo che il tempo ha trasformato mantenendone i tratti unici e antichissimi: un sito archeologico vissuto, dove la città vecchia di migliaia di anni fa si è arricchita nei secoli, di nuove strutture, case, vita. Ad Hasankeyf la gente vive ancora, ci vive ininterrottamente dal Neolitico. Ora rischia di essere sommersa: il Tigri, che l’ha resa tale, minaccia di riprendersela.
La colpa, però, è umana, è quella del governo turco e del faraoinico progetto Gap,Southeastern Anatolia Project. Ventidue dighe con una capacità di 8mila megawatt l’ora (di cui tre non terminate o non attive, Ilisu, Cizre e Silvan) e 19 impianti idroelettrici su Tigri ed Eufrate chiamati a irrigare 1,7 milioni di ettari di terre e a produrre 27 miliardi di kWh l’anno.
Con buona pace di Siria e Iraq, vittime designate di un progetto che stravolge l’ecosistema: la portata dei due fiumi in territorio iracheno è già crollata, i contadini sono in fuga, siccità e desertificazione non sono uno spettro, sono reali. Ma i danni non sono solo oltre confine. Hasankeyf rischia di sparire, nonostante nel 2013 la Corte amministrativa di Ankara abbia ordinato lo stop dei lavori per mancanza della valutazione dell’impatto ambientale:la diga di Ilisu sommergerà la comunità insieme a 5.500 grotte, 550 monumenti e le tracce di 24 culture diverse.
Rischia di sparire il sito archeologico, 199 villaggi e 80mila persone. Cacciate via, «ricollocate» in città nuove di zecca (New Hasankeyf) o nei capoluoghi del sud est a maggioranza curdo. In cambio Ankara darà loro un compenso per togliersi di torno in silenzio. Peccato che sia troppo poco per ricostruirsi una vita.
Contro il progetto società civile, associazioni di professionisti, comuni e comunità colpite si sono messe insieme 13 anni fa, nella campagna Keep Hasankeyf Alive (Hyg). Ottantotto realtà in mobilitazione permanente dal 2006 con azioni legali, proteste di piazza, presidi, campagne per attirare l’attenzione internazionale, ricorsi a Ue e Unesco. Il prossimo grande evento è previsto per il 14 luglio, il «grande salto»: dentro il fiume Tigri, che Ankara vuole giustiziere, si getteranno attivisti turchi e iracheni i cui corpi finora hanno impedito al governo di procedere.
Perché se l’avvio del riempimento del bacino era previsto il 10 giugno, Ankara ha rinviato tutto. Ufficialmente a causa dell’eccessiva portata del fiume per le grandi piogge e la neve invernali, ci dice Ercan Ayboga, ufficiosamente perché la protesta fa da muro.
Ercan segue la campagna da anni. Prima da coordinatore dei patrimoni locali per il comune di Diyarbakir, poi con il Movimento ecologico della Mesopotamia e la campagna Hyg. Difendono Hasankeyf e gli altri 400 siti archeologici a rischio, oltre alla speciale biodiversità della zona e agli 80mila abitanti che perderanno stile di vita, pascoli e terre agricole.
«Il governo non ha iniziato a riempire il bacino, nessun’area è stata allagata – ci spiega da Berlino, dove vive ora a causa delle pressioni subite in Turchia – La ragione del ritardo è la nostra protesta. Ma la minaccia incombe: i lavori sono in corso, anche se la gente è ancora nei 199 villaggi. E ci resterà per un po’: il riempimento richiederà dai 4 ai 10 mesi, l’acqua non arriverà al sito prima di gennaio, perché dista 77 km. Abbiamo ancora tempo».
Ma il tempo corre, soprattutto quello della burocrazia, strumento politico di esproprio e sfratto. Buona parte degli espropri delle terre sono ufficiali. Molti hanno già ricevuto denaro per andarsene, altri lo hanno rifiutato perché insufficiente (50-60mila lire turche, meno di 10mila euro) o per ragioni politiche. Saranno cacciati con la forza, è la previsione, visto che le cause intentate sono giunte al termine senza smuovere la feroce macchina statale.
«Con il rimborso previsto è impensabile ricominciare da un’altra parte: non bastano a comprare un piccolo appartamento a New Hasankeyf o a Batman, la casa più economica costa 2-3 volte tanto. E di quelle 80mila persone, 20mila sono nullatenenti, non sono proprietari di terre e non riceveranno nulla. A questi si aggiungono 3mila famiglie di nomadi, che vivono di pastorizia. Per loro perdere Hansakeyf significherà perdere il proprio tradizionale stile di vita».
Come spesso accade da queste parti, compagnie e istituzioni straniere non sono immuni: con quattro aziende turche lavora alla realizzazione di Gap una compagnia austriaca, la Andritz, «fondamentale perché ha fornito le turbine che i turchi non sono in grado di costruire».
«Chi dà le garanzie di credito alla compagnia austriaca? Le banche turche. È la prima volta che le riconoscono a una compagnia straniera che investe in Turchia. A questo va aggiunto il mancato ruolo della Corte europea per i diritti umani e dell’Unesco. La Echr ha deciso di non decidere quest’anno, a 13 anni dal ricorso, dicendo che non è di sua competenza. Poteva dirlo da subito, ma ha aspettato fin quando il progetto è giunto alla fine, dando di fatto alla Turchia il via libera a operare. E l’Unesco non agisce. Spetterebbe al governo chiedere l’inserimento del sito tra i patrimoni dell’umanità, ma Ankara non lo farà mai. Potrebbe farlo l’Unesco in autonomia, ma nonostante le migliaia di firme raccolte non si muove». Ora è partita una nuova raccolta firme, con la speranza di fare breccia.
«Anche noi “internazionalizziamo” la battaglia – conclude Ercan – Oltre a lavorare con le comunità locali, abbiamo creato un ponte con gli attivisti iracheni: insieme facciamo parte della campagna Save the Tigris. Ma le risorse finanziarie sono poche e la repressione tanta: alcuni leader dell’iniziativa sono stati arrestati o costretti all’esilio. Per due anni è stato pressoché impossibile manifestare nel sud est (per la campagna militare turca contro il Pkk, ndr). Ma non è tardi per fermare il progetto anche se l’acqua inizierà ad arrivare. Anche quando il sito sarà sommerso, noi continueremo».