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Prigioniero palestinese in isolamento muore in un carcere israeliano

Chiara Cruciati 17 luglio 2019
Nassar Taqatqa, 31 anni, trovato senza vita nella prigione di Nitzan a un mese dall’arresto. L’Anp: «Ora inchiesta internazionale». Le associazioni dei detenuti denunciano le pessime condizioni nelle prigioni e le torture sistematiche.

Il villaggio di Beit Fajjar, poco a sud di Betlemme, è senza parole. La famiglia di Nassar Majed Taqatqa non si dà pace: a meno di un mese dall’arresto il giovane palestinese, 31 anni, tornerà a casa in una bara. È successo ieri, nella prigione israeliana di Nitzan, ad al-Ramleh: Nassar è stato trovato senza vita.
Era stato arrestato lo scorso 19 giugno, per la prima volta nella sua vita, dopo un raid dell’esercito israeliano nella casa di famiglia a Beit Fajjar, case in pietra bianca intervallate dai terrazzamenti agricoli, poco più di 11mila anime. Per lo più operai nelle vicine cave di pietra, come Nassar, in una comunità che una volta viveva di agricoltura ma che ha perso terre a favore delle vicine colonie di Efrat e Kfar Etzion e del muro di separazione.
I motivi dell’arresto sono oscuri, nessuna accusa era stata ufficialmente mossa e, secondo quanto ci spiegano dall’associazione per i prigionieri Addameer, era ancora nella «fase interrogatorio». Nassar era stato portato al centro di detenzione di Jalameh, noto per i lunghi e violenti interrogatori a cui sono sottoposti i prigionieri palestinesi, che una volta liberi hanno spesso denunciato abusi fisici e psicologici.
Due settimane dopo, a inizio luglio, era stato trasferito a Nitzan dove, aggiunge il Palestinian Prisoners Center for Studies (Ppcs), è stato messo in isolamento. Proprio oggi era prevista l’udienza in una corte militare (i palestinesi dei Territori sono sottoposti a legge militare e non civile) che avrebbe o meno allungato la detenzione.
Fino alla morte, ieri: «Siamo sotto choc – ha raccontato il cugino Mohammed ad al-Jazeera – Non abbiamo ancora ricevuto il corpo per l’autopsia». Di certo, dice la famiglia, Taqatqa era in buona salute, non soffriva di alcuna malattia.
Ne è convinto anche il Comitato per gli affari dei prigionieri (una volta ministero dell’Autorità nazionale palestinese), che accusa Israele del decesso: «Non accettiamo la versione israeliana sulla sua morte – ha detto Qadri Abu Bakr, a capo del Comitato, in riferimento all’ipotesi dell’infarto circolata ieri sui media israeliani – Chiediamo che l’autopsia sia condotta il prima possibile per determinare con esattezza la causa della morte». Che Abu Bakr imputa a negligenza medica o alle conseguenze di torture.
Non sarebbe un caso isolato, dicono le associazioni per i prigionieri: dal 1967, anno d’inizio dell’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, 220 prigionieri palestinesi sono morti in un carcere israeliano per torture, fuoco aperto dalle guardie e, in 60 casi, per assenza o carenza di cure mediche.
«La prigione di Nitzan è tra le peggiori in Israele – spiega una ricercatrice del Ppcs, Amina al-Taweel – È famosa per le orribili condizioni di detenzione e la crudeltà delle guardie. Durante la detenzione Taqatqa non era autorizzato a ricevere visite dall’avvocato o dalla famiglia, non comunicava con nessuno».
Secondo i media israeliani, Taqatqa – che viene descritto come «un terrorista di Hamas» che avrebbe condotto o pianificato (non è chiaro) un attacco contro «la sicurezza dello Stato di Israele» – era stato visitato alcuni giorni fa all’ospedale di Afula e al momento del decesso si trovava nella sezione malattie mentali della prigione. Secondo quelli palestinesi, invece, era detenuto in una cella sporca e umida e durante i lunghi interrogatori era legato mani e piedi.
E mentre nelle strade di Ramallah e Gaza sono partiti subito presidi di protesta, reagiscono i prigionieri politici palestinesi che, dice il Palestinian Prisoners Society, sono pronti a manifestare nelle loro celle, a partire dalla forma di protesta più pesante, lo sciopero della fame. E reagisce anche l’Anp che, tramite il ministero degli esteri, chiede un’inchiesta internazionale sulla morte di Nassar, definita «un crimine razzista».
A oggi sono 5.250 i prigionieri politici palestinesi nelle carceri di Israele, di cui 205 minorenni, 44 donne, 480 in detenzione amministrativa (senza accuse né processo) e 7 parlamentari del Consiglio legislativo. Nei primi sei mesi dell’anno sono stati arrestati 2,759 palestinesi: tra loro 446 bambini e 76 donne.
«Negli ultimi cinque decenni organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno documentato le sistematiche e vaste violazioni israeliane della Quarta convenzione di Ginevra e dei diritti dei prigionieri palestinesi – commenta Hanan Ashrawi, storico membro dell’Olp – compreso l’uso di torture e abusi fisici e psicologici. I prigionieri palestinesi sono vittima di una macchina coloniale e razzista designata a mantenere l’oppressione del popolo palestinese attraverso l’incarcerazione di massa».