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No, la Sea Watch 3 non era una nave “pirata”

Il Post 30 GIUGNO 2019
È una definizione che piace molto a Salvini e ai giornali di destra, ma non ha alcuna base nei fatti.

Sin dall’inizio della vicenda della Sea Watch 3, la nave della ong Sea Watch rimasta per due settimane al largo delle acque italiane senza poter sbarcare una quarantina di richiedenti asilo, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha ribadito più volte di considerare la nave una imbarcazione «pirata». La definizione è piaciuta talmente tanto ai quotidiani di destra che l’hanno utilizzata più volte in questi giorni: stamattina, per estensione, sono diventati dei «pirati» anche i parlamentari dell’opposizione che erano saliti a bordo a sostenere la causa della ong. Il problema è che non esiste alcuna base per definire come «pirata» la nave della ong o il suo equipaggio.

La pirateria è una cosa molto precisa, che non aderisce per niente ai contorni della vicenda della Sea Watch 3. Secondo il diritto internazionale, la definizione più aggiornata di pirateria la troviamo all’articolo 101 della Convenzione dell’ONU sul diritto del mare, firmata a Montego Bay, in Giamaica, nel 1982 e recepita dall’Italia nel 1994. L’articolo 101 dice:
Si intende per pirateria uno qualsiasi degli atti seguenti:
a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, o ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti: i) nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati ii) contro una nave o un aeromobile […] in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato;
b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata;
c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b).
Le caratteristiche principali dell’atto di pirateria sono due: devono avvenire in alto mare o al di fuori della giurisdizione dei singoli stati – quindi fuori dalle acque territoriali, per intenderci – e prevedere una qualche forma di violenza contro un’altra nave o contro altre persone o cose. Nessuna delle due si è realizzata nel caso della Sea Watch 3.
Quando si trovava in alto mare, cioè quando ha soccorso i migranti nel tratto fra Libia e Sicilia, la nave ha semplicemente seguito le norme del diritto marittimo che obbligano qualsiasi imbarcazione a salvare le vittime di un naufragio. Una volta entrata nelle acque territoriali italiane, qualsiasi cosa sia successo nella notte fra venerdì e sabato al porto di Lampedusa, la nave era soggetta alle leggi italiane e perciò non si può più parlare di un’azione “pirata” (tanto che la comandante Carola Rackete è indagata per alcuni reati ben precisi, che però non riguardano la pirateria).
È fuorviante inoltre inquadrare la manovra compiuta dalla Sea Watch 3 per entrare nel porto di Lampedusa come un’azione “pirata”. Nei video girati da diversi giornalisti si vede bene la manovra di avvicinamento compiuta da Rackete, e il tentativo di fermarla da parte di una motovedetta della Guardia di Finanza, che cercava di frapporsi fra la Sea Watch 3 e il molo: quando si è capito che la motovedetta poteva essere schiacciata, gli uomini della Guardia di Finanza l’hanno spostata permettendo di fatto alla Sea Watch 3 di attraccare.
Secondo la ricostruzione di Repubblica a un certo punto c’è anche stato un urto fra la Sea Watch 3 e la motovedetta della Guardia di Finanza, e qualcuno ha parlato impropriamente di “speronamento” (una manovra che si può compiere solo con la prua, cioè la parte anteriore della nave). Ma è difficile stabilire che l’intento della Sea Watch 3 fosse «violento»: secondo Repubblica, Rackete ha raccontato ai suoi avvocati che durante la manovra non riusciva a vedere bene la motovedetta, e sembra che Rackete sia stata vista uscire più volte durante l’avvicinamento al molo per valutare le distanze. La manovra sarà probabilmente esaminata dalla procura di Agrigento, che sta indagando sul comportamento di Rackete: che però in ogni caso non si può definire «pirata» dato che si è svolto nel porto di Lampedusa, cioè in acque territoriali italiane.
Gli episodi di pirateria vera sono altri. La zona del Corno d’Africa, per esempio, diventò nota in tutto il mondo per i suoi frequenti episodi di pirati tra il 2005 e il 2011, quando raggiunsero il loro picco, con 237 attacchi e danni per circa 8 miliardi di dollari. I pirati somali, in molti casi, erano infatti pescatori che avevano subito gravi perdite economiche per via della pesca su larga scala condotta illegalmente nei loro mari da pescherecci stranieri, e che si erano dedicati al saccheggio e al sequestro di navi straniere per ragioni di sopravvivenza. Da allora il problema è diminuito, in parte per i diversi programmi di controllo marittimo internazionale e in parte per gli aiuti forniti alle comunità di pescatori.