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Sudan sospeso dall’Unione Africana

Chiara Cruciati 7 giugno 2019
Dopo il massacro di lunedì, l’Ua chiede un’autorità civile. L’Onu ritira il suo staff dal paese, il premier etiope oggi a Khartoum come mediatore. Le opposizioni insistono: avanti con la disobbedienza civile.

Le strade di Khartoum si sono quasi svuotate, raccontano i giornalisti presenti, sono i giovani che mantengono qualche barricata. Per il resto è un Eid di strade pattugliate (a bordo, dicono gli oppositori, di veicoli blindati nuovi di zecca, made in Abu Dhabi) dai paramilitari delle Rapid Support Forces, gli stessi responsabili del massacro di lunedì.
Il numero di morti sale, sarebbero almeno 108 le vittime secondo fonti mediche e 500 i feriti. La giunta militare smentisce, parla di 46 vittime, come fossero poche, eppure 40 sono i corpi recuperati dal Nilo solo martedì. E il bilancio attuale peggiorerà, molti feriti sono gravi e le condizioni degli ospedali, affollati e con pochi mezzi, sono critiche: foto mostrano i feriti ammassati a terra, uno accanto all’altro.
A rispondere, a ben tre giorni dalla strage di manifestanti e la distruzione del presidio di fronte al quartier generale delle forze armate sudanesi, è stata ieri l’Unione africana: il Sudan è stato sospeso dall’organizzazione con effetto immediato «fino all’effettiva creazione di un’autorità di transizione civile, la sola via per uscire dall’attuale crisi», ha scritto in un post su Twitter il Dipartimento di pace e sicurezza dell’Ua.
L’annuncio è giunto dopo la riunione d’emergenza che si è tenuta ad Addis Abeba (tra l’altro, il premier etiope Abiy Ahmed è atteso oggi a Khartoum come mediatore). Già lunedì, mentre arrivavano le prime notizie del massacro, l’organizzazione aveva chiesto «un’indagine rapida e trasparente». Reagisce anche l’Onu che per ora si limita ad andarsene, annunciando il ritiro del proprio personale civile, «temporaneamente», a causa della situazione.
Ma reagisce, dopo lo choc della violenza militare, anche l’Associazione dei professionisti (Spa), leader delle proteste fin dal principio, a metà dicembre: ieri ha fatto appello alla gente perché torni in piazza, blocchi strade e ponti, «paralizzi la vita pubblica». Insomma, che non abbandoni la via della disobbedienza civile.
L’obiettivo è annullare l’effetto terrore che la giunta militare voleva provocare con metodi che ricordano il genocidio in Darfur, i metodi dei Janjaweed (tende date alle fiamme, stupri, aggressioni negli ospedali e non solo a Khartoum), con cui il Consiglio militare di transizione tenta di drogare il negoziato con le opposizioni. Dialogo che i civili hanno già rigettato.
E iniziano ad emergere anche le responsabilità straniere. La distruzione del presidio di fronte alla sede dell’esercito sudanese a Khartoum e il massacro di manifestanti per mano della giunta militare, lo scorso lunedì, sarebbe stato concordato dal capo del Consiglio militare di transizione (Tmc) con i paesi del Golfo durante le recenti visite del generale al-Burhan al Cairo, Abu Dhabi e Mecca, mentre il suo vice Mohamed Hamdan Dagolo ha visto Mohammed bin Salman a Gedda.
A dirlo è una fonte molto vicina alla giunta, anonima, all’agenzia Middle East Eye. Già martedì, il giorno dopo la strage, le opposizioni avevano accusato «paesi stranieri» di interferenza e sostegno al Tmc. E a fornire un altro pezzo del puzzle è il Dipartimento di Stato Usa che in una nota aveva riportato della discussione avuta con il vice ministro della Difesa saudita sulla repressione delle proteste in Sudan.
Vero è che Arabia saudita ed Emirati arabi (che con l’Egitto sono i principali sponsor del Tmc) il 21 aprile scorso avevano parlato di un aiuto finanziario di tre miliardi di dollari alla giunta militare.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati