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Sudan, i militari reprimono nel sangue la “primavera delle donne”

Umberto De Giovannangeli 03/06/2019
Almeno tredici morti e sessanta feriti durante la repressione violenta dei militari.

Sudan, una “primavera” insanguinata. Con i militari che fanno strage di manifestanti che, sull’onda della defenestrazione del dittatore Omar al Bashir, l’11 aprile scorso, non hanno mai smesso un solo giorno di chiedere e battersi pacificamente per l’avvio di una vera transizione democratica. Ma il modello dei militari sudanesi è quello egiziano. Un regime senza Bashir, ma comunque un regime che fa spregio dei più elementari diritti umani, spara sui manifestanti e chiude i media scomodi, come è accaduto alcuni giorni fa con al-Jazeera. E’ salito ad almeno 13 morti e una sessantina di feriti il bilancio dell’operazione lanciata oggi dalle forze di sicurezza sudanesi per disperdere con la forza il sit-in di protesta in corso da aprile davanti al ministero della Difesa, nel centro di Khartoum. Lo ha riferito l’opposizione, denunciando una “carneficina”.
“Stando ai primi dati, è salito a 13 il numero dei manifestanti uccisi nella carneficina perpetrata nel sit-in di Khartoum”, ha twittato “Forze della Libertà e del Cambiamento”, coalizione delle forze di opposizione che guidano la protesta, annunciando la fine dei negoziati in corso con il Consiglio militare al potere a Kharthoum dalla deposizione del presidente Omar al Bashir, l′11 aprile scorso. Secondo Khalid Omar Yousef, uno dei capi delle Forze della libertà e del cambiamento, quello avviato dai militari è un golpe contro la rivoluzione che ha rimosso Omar al Bashir. Il sit-in, in piedi da aprile, raccoglie i gruppi civici che chiedono alla giunta militare di passare il potere ai civili. Le organizzazioni della società civile hanno subito fatto appello alla popolazione, perché costruisca barricate nelle strade, per bloccare i movimenti dei militari ma senza ricorrere allo scontro violento. Mentre la zona del sit-in sarebbe stata sgomberata, manifestanti hanno bloccato l’intera Omdurman, la città gemella di Khartoum dall’altra parte del Nilo, con sbarramenti di sassi e copertoni incendiati. Alcuni medici hanno, inoltre, riferito che i militari sono entrati nel Royal Care International Hospital, dove sono stati sparati diversi colpi e proseguito l’inseguimento dei manifestanti all’interno del campus ospedaliero.
«I manifestanti, che hanno richiesto l’intervento chirurgico e l’ammissione in terapia intensiva”, hanno riferito dal Comitato centrale dei medici sudanesi (Ccsd). Era salita sul tetto di una macchina a Khartoum e alzando il dito al cielo – come moderna statua della libertà – ha parlato alla folla, intonando canti tradizionali sudanesi ed esortando ai cambiamenti nel paese. Questo è l’atto coraggioso di Alaa Salah, studentessa 22enne di architettura e ingegneria che è diventata il simbolo delle proteste in Sudan. “Il proiettile non uccide. Ciò che uccide è il silenzio delle persone“, ha intonato la giovane donna per le strade della capitale sudanese. “Di fronte a una brutale repressione dei diritti umani, il popolo del Sudan sta pacificamente e ancora gioiosamente esercitando la propria libertà di espressione. E questa foto ci ricorda che ci sono donne in tutto il mondo che stanno conducendo una battaglia per l’umanità“, aveva dichiarato, quell’11 aprile, Kumi Naidoo, Segretario Generale di Amnesty International.
Bellissimo è un editoriale di Nigrzia: “L’abbiamo vista, era donna. A Khartoum, in questi mesi di proteste di piazza, è stata lei l’immagine della libertà e del cambiamento. Lei che si staglia, ritta nel suo toob bianco, il braccio che incoraggia la folla, lo sguardo che cerca l’intesa di chi l’ascolta, la fotografa, segue il suo parlare incalzante. Agli orecchi, un dettaglio che ai sudanesi non è sfuggito: dei pendenti che chiaramente ricordano le Candàci, le regine sudanesi dei tempi faraonici. Infatti, la rivoluzione che ha scalzato al-Bashir pochi mesi prima che completasse il trentennio dalla sua ascesa al potere (30 giugno 1989), l’hanno fatta per gran parte loro, le donne. Sulla spianata davanti al quartier generale dell’esercito e nei flash mobs bocciati ovunque era difficile contare i manifestanti, ma nessuno può negare che le donne erano la maggioranza dei manifestanti. Giovani studentesse, ma anche professioniste e madri di famiglia. L’8 marzo, giornata internazionale della donna, è stato ribattezzato giornata delle Candàci. Quel giorno la piazza è appartenuta solo a loro. Un protagonismo che smentisce il luogo comune che nel mondo arabo o musulmano le donne siano passive, se non addirittura sottomesse, e che non abbiano alcun peso nella vita politica. Una presenza così esplicita e ancorata nella storia (le regine Candàci) ha un impatto su tutti i sudanesi. In un paese dove vige la legge islamica da 36 anni e dove la Fratellanza mussulmana ha promosso con orgoglio una campagna di arabizzazione della popolazione (con tutto quello che questo ha comportato in regioni come il Darfur e i Monti Nuba), l’affermazione delle radici africane, antecedenti l’arrivo dell’islam, è una vera e propria sterzata del discorso sociale”.
Lo “Zagrouda“ (o il canto delle donne) è diventato il segnale di “richiamo” per le proteste nelle strade. Quando le persone sentono queste voci femminili sanno che si tratta di una chiamata alla rivoluzione e che è ora di iniziare la loro marcia. La risposta è nella carneficina messa in atto dai militari. Come sempre accade, oggi in Sudan ieri in Egitto, la repressione è stata subito stigmatizzata dalla diplomazia internazionale, chiedendo che le violenze si fermino immediatamente. Egitto, Siria, Yemen, Palestina: il copia incolla delle prese di posizione della diplomazia internazionale è impressionante. Irfan Siddiq, ambasciatore inglese a Khartoum, su Twitter ha scritto: “Sono estremamente preoccupato per i colpi di arma da fuoco che ho sentito nell’ultima ora dalla mia residenza. Le forze di sicurezza sudanesi stanno attaccando il sit-in di protesta. Non ci sono scuse per questo attacco. Fermatevi, adesso”. In Sudan “ci attendiamo che il Consiglio militare di transizione agisca in modo responsabile” perché “ogni decisione di intensificare il ricorso alla violenza non può che far deragliare il processo politico»” ha ribadito la portavoce del Servizio europeo di azione esterna diretto da Federica Mogherini, Maja Kocijancic. “Seguiamo da vicino la situazione in Sudan. La priorità per l’Ue resta il trasferimento rapido di potere a un’autorità civile”, aggiunge.
“La Francia condanna le violenze commesse nei giorni scorsi in Sudan nella repressione delle manifestazioni . Chiede il proseguimento del dialogo tra il Comitato militare transitorio e l’opposizione, in modo da trovare rapidamente un accordo inclusivo sulle istituzioni della transizione ”, ha detto la portavoce del Quai d’Orsay. Al-Bashir era salito al potere nel 1989, quando era un colonnello dell’esercito, grazie a un colpo di stato militare. Da allora e fino al 10 aprile Bashir, oggi 75enne, ha controllato ininterrottamente il Paese, spingendolo sempre più verso l’adozione di una dottrina integralista dell’Islam e flirtando con il terrorismo jihadista. Negli anni ’90 aveva dato ospitalità a Osama bin Laden fino a quando non venne espulso su pressione degli Stati Uniti. Nel 2008 è stato accusato dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in relazione al conflitto nella regione del Darfur. Per cinque anni, a cavallo degli anni ’90, trecentomila donne, uomini e bambini vennero perseguitati, stuprati, uccisi nelle regioni centrali e orientali del paese inserite nella grande provincia del Darfur. Altri due e milioni e mezzo di individui erano stati costretti alla fuga e ammassati in campi di rifugiati.
Sollecitata dalla Procura, la Corte del Tribunale penale aveva accolto la richiesta di un mandato di cattura per lo sterminio di tre gruppi etnici (Fur, Masalit, Zaghawa) che popolano la regione. Ma si era limitata a firmare un provvedimento restrittivo solo per i reati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’accusa di genocidio, molto più pesante, era stata respinta. La pubblica accusa, rappresentata dal procuratore Luis Moreno-Ocampo, ha fatto ricorso. Ha raccolto nuovi documenti e nuove testimonianze e ha sottoposto una seconda richiesta alla Corte. E’ 12 luglio 2010.“Esistono ragionevoli prove”, si legge nella motivazione del secondo mandato di cattura, “per ritenere l’imputato responsabile di tre genocidi commessi contro i gruppi etnici dei Fur, Masalit e Zaghawa. Reato che include il genocidio attraverso l’omicidio, il genocidio provocato da gravi menomazioni fisiche e mentali, il genocidio commesso attraverso deliberate aggressioni nei confronti dei singoli gruppi costretti a condizioni di vita talmente efferate da provocare la loro distruzione fisica”.
Genocidio programmato, dunque, che ha portato all’annientamento di tre gruppi etnici. Al-Bashir – forte del sostegno di Russia, Cina, così come del Qatar, Egitto e Turchia – aveva tuonato contro l’iniziativa della Corte internazionale e, con aria di sfida, aveva annunciato una serie di visite di Stato in alcuni paesi dell’area. Visite che ha puntualmente compiuto, senza subire alcuna restrizione. Ora Bashir è stato rimosso. Ma il potere in divisa che l’ha sostenuto per decenni non intende farsi da parte. E lo dimostra reprimendo nel sangue una rivolta pacifica. Alla ricerca di un al-Sisi sudanese.