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La guerra che Usa e Iran non vogliono, ma che rischiano di dover combattere

Nicola Pedde 21/06/2019
Gli Stati Uniti e l’Iran sembrano a un passo dalla guerra nel Golfo Persico, in un crescendo di tensioni che lascia poco spazio all’ottimismo e allarma i mercati.

Il 12 maggio scorso alcune petroliere sono state attaccate al largo dell’emirato di Fujaira, determinando danni contenuti sebbene destando preoccupazioni tanto sul piano locale quanto su quello globale e del mercato petrolifero. Quasi contemporaneamente, in Yemen, i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran hanno sferrato un attacco con droni armati contro installazioni petrolifere in territorio saudita, colpendo in profondità e con efficacia.

Pochi giorni dopo, il 19 maggio, un missile cade nella green zone di Baghdad e manca di poco il perimetro dell’ambasciata statunitense, mentre il 12 giugno successivo un attentato colpisce nuovamente i sauditi, provocando 26 morti nell’aeroporto di Abha, non lontano dal confine con lo Yemen. Il 13 giugno, invece, due petroliere vengono colpite da ordigni nel Golfo dell’Oman, provocando danni ingenti, mentre pochi giorni dopo un missile colpisce le installazioni di una compagnia petrolifera straniera a Bassora.
Nonostante la corale accusa all’Iran da parte di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, la comunità internazionale nutre dubbi su alcuni di questi attacchi, ritenendo possibile una combinazione di responsabilità atte a scatenare un conflitto.
La sintesi di questa crisi è tuttavia paradossale. Né gli Stati Uniti – o meglio, il presidente e l’apparato della difesa – né l’Iran vogliono l’escalation militare, trovandosi tuttavia entrambi costretti a gestire una dinamica politica delicatissima e potenzialmente esplosiva in conseguenza di “incidenti” non voluti dalle parti ma in ogni caso capaci di far deflagrare un conflitto.
Alla radice del problema
L’attuale crisi del Golfo è il prodotto di una lunga catena di errori generata in primo luogo dall’incapacità del presidente Trump di gestire la delicata questione delle relazioni con l’Iran. La “damnatio memoriae” dell’era Obama, che ha caratterizzato sin dall’inizio il carattere della presidenza Trump, non ha risparmiato l’accordo sul nucleare siglato dagli Stati Uniti insieme ad altri 5 attori della comunità internazionale con l’Iran nel 2015.
Il JCPOA, tecnicamente quanto politicamente un ottimo risultato del lungo e duro lavoro della diplomazia internazionale, è stato sin dapprincipio definito da Trump come il “peggior accordo mai siglato dall’America”, facendo seguire un inopportuno ritiro unilaterale degli Stati Uniti che ha determinato l’avvio di una crisi dalla quale la stessa amministrazione cerca ora con difficoltà di districarsi.

Il presidente Trump ha voluto esercitare sull’Iran quella che egli stesso ha definito come la strategia della “massima pressione”, esasperando i termini della tensione attraverso l’adozione di un embargo pesantissimo che ha isolato il paese e costretto in ginocchio la sua economia.

Trump è animato dalla convinzione che la sua strategia, semplice ed elementare, spinga la controparte iraniana nella disperata necessità di accettare i termini di un nuovo accordo, di cui nessuno ha tuttavia definito il quadro generale, né tantomeno compreso la portata.

L’effetto della strategia statunitense sull’Iran ha invece sì prodotto una grave crisi economica, ma non ha in alcun modo determinato il contesto entro cui definire un nuovo accordo, dando luogo ad uno stallo che ha progressivamente innalzato la tensione sul piano regionale.

La situazione attuale è quindi caratterizzata dall’impasse più totale della linea politica adottata dal presidente Trump, dalla presenza sul terreno di un’imponente apparato militare e dal fermo rifiuto dell’Iran di accettare qualsiasi ipotesi negoziale sotto la minaccia di pressioni politiche, economiche e soprattutto militari.
L’apparato della difesa statunitense, inoltre, critico sin dapprincipio della linea adottata dal presidente, si trova adesso nella delicatissima situazione di dover gestire i fallimentari effetti della strategia della “massima pressione” nel Golfo Persico, a poca distanza dai confini con l’Iran e con l’incessante pericolo di un incidente che dia fuoco alle polveri ed inneschi un conflitto che nessuna delle due parti in realtà ha mai voluto.
Non tutti all’interno dell’amministrazione statunitense, tuttavia, cercano di impedire il conflitto. Il segretario per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, è alacremente al lavoro per far sì che la strategia del presidente sia funzionale ad un’evoluzione bellica, fallendo sul piano politico e costringendo gli Stati Uniti al conflitto.
Bolton, anima nera del più retrogrado neoconservatorismo, non è tecnicamente un uomo di Trump, e la sua nomina al vertice del National Security Council è avvenuta in modo alquanto opaca, dopo che nel 2017 aveva addirittura lamentato di essere stato estromesso dalla cerchia del presidente.
John Bolton, da sempre deliberatamente schierato con coloro che propugnano l’adozione delle maniere forti con l’Iran al fine di determinarne un regime change, ha costantemente operato in contrasto con la visione del presidente – costruita sulla necessità di esercitare pressioni sull’Iran evitando lo scontro – arrivando oggi a mettere concretamente in pericolo l’intera filiera degli interessi americani nella regione.
John Bolton ha una finestra molto breve per riuscire ad imporre un’escalation militare, che si chiuderà nell’arco di due o tre mesi. Se dovesse fallire, è altamente probabile che il suo nome si aggiungerebbe ai tanti dei silurati dell’amministrazione, senza troppi rimpianti da parte della Casa Bianca e dell’intero deep state.
La crisi e il suo potenziale esplosivo
Né l’amministrazione Trump, né tantomeno gli iraniani, quindi, vogliono l’escalation militare. La situazione attuale è del tutto diversa da quella del 2003, quando gli Stati Uniti volevano ad ogni costo entrare in Iraq e rovesciare Saddam Hussein.
Ciononostante, l’errore di calcolo commesso dagli USA con l’adozione della strategia della “massima pressione” e la conseguente adozione da parte dell’Iran di una postura rigida e in alcun modo conciliatoria, hanno determinato un pericolosissimo innalzamento della tensione nella regione del Golfo Persico.

Un secondo gruppo navale statunitense è stato mandato davanti alle coste dell’Iran, mentre l’invio di 120.000 uomini è annunciato e non ancora attuato, sempre nell’ottica di esercitare sull’Iran una crescente pressione politica atta a favorirne una capitolazione funzionale ad accettare i termini di un nuovo accordo con gli Stati Uniti.

Tale capitolazione, tuttavia, non solo non si è materializzata, ma è anche e soprattutto venuto meno ogni benché minimo spazio negoziale per ipotizzare un dual-track atto a disinnescare la crisi, con la conseguenza di un congelamento della crisi e con l’aggravante della presenza di un consistente dispositivo militare a pochi metri dal limite delle acque territoriali dell’Iran. Con tutti i rischi potenziali connessi al verificarsi di incidenti o incomprensioni che possano generare l’esplosione di un conflitto.

L’Iran, sebbene arroccato sulla difensiva ed apparentemente caratterizzato da una posizione di forza, che esprime attraverso il rifiuto di qualsiasi ipotesi di contatto con gli Stati Uniti, naviga in acque altrettanto agitate sul piano della politica interna.

La crisi del JCPOA e la tensione emersa nel corso degli ultimi mesi ha definitivamente offuscato il prestigio del presidente Rohani, dando impulso alle forze più conservatrici che hanno avuto gioco facile nel criticarne le scelte politiche e chiedere l’adozione di una postura meno conciliante con l’Occidente.

La Guida Suprema, Ali Khamenei, ha saggiamente tenuto una posizione intermedia, chiedendo a Rohani di assumere toni più duri nei confronti degli USA e dell’Europa, di fatto allo scopo di sottrarre l’iniziativa alle forze ultraconservatrici, per impedirne un rafforzamento.

Le elezioni parlamentari del prossimo 21 febbraio saranno certamente caratterizzate da toni fortemente critici dell’Europa e dell’America, con un consolidamento delle formazioni conservatrici a danno di quelle centriste che sino ad oggi hanno ampiamente sostenuto il presidente. La strategia della Guida Khamenei è quella al tempo stesso di gestire in modo a-conflittuale la fine della presidenza Rohani e di impedire un forte consolidamento delle forze più radicali, favorendo per quanto possibile un maggiore equilibrio di forze in seno al parlamento.
Le tensioni generate dalla crisi del JCPOA hanno determinato una forte polarizzazione dello scontro all’interno del tessuto politico iraniano, con la conseguenza di ridurre fortemente il margine operativo dell’attuale establishment e della stessa Guida.
Il problema maggiore, tuttavia, sarà quello di gestire la pesante crisi economica e soprattutto il crollo dell’export petrolifero all’indomani della fine del periodo di esenzione semestrale concesso dagli Stati Uniti ad alcuni attori internazionali, in conseguenza del quale l’output petrolifero iraniano è sceso di oltre la metà rispetto alla soglia minima di 1.3 milioni di barili di petrolio ritenuta come necessaria per il sovvenzionamento dell’intero apparato governativo.

Anche all’interno della Sepah-e Pasdaran, la complessa struttura militare, politica ed industriale dei Guardiani della Rivoluzione (o IRGC) è percepibile la polarizzazione dello scontro politico e la tensione generata dalla crisi internazionale nel Golfo.

Una componente minoritaria dell’IRGC è da sempre convinta che un conflitto a bassa entità e di breve durata con gli Stati Uniti possa essere funzionale a gestire i propri interessi domestici, di fatto chiudendo ogni ipotesi di contatto e collaborazione con l’esterno e ripristinando quel contesto di autoreferenzialità che ha determinato le fortune (economiche e politiche) di diversi esponenti dell’organizzazione.
Al contrario, la gran parte dei Pasdaran ha una visione più nitida e meno opportunistica del problema, ben comprendendo come un’ipotesi conflittuale comporterebbe alla fine un rischio per tutti e un grave pericolo per la stabilità e la sicurezza del paese. Per tale ragione adotta ogni necessaria cautela per impedire di essere percepita dagli Stati Uniti come una controparte aggressiva, trovando peraltro piena reciprocità sul piano del rapporto con gli Stati Uniti. Un esempio semplice, ma chiaro, di come questa reciproca percezione si traduca poi nel concreto è data ad esempio dall’utilizzo del farsi (la lingua persiana) da parte della US Navy nei contatti con le unità militari iraniane nel Golfo Persico, al fine di impedire l’insorgere di incomprensioni che possano condurre al verificarsi di incidenti.
Quali scenari?
La lunga catena di incidenti occorsi nella regione del Golfo Persico nel corso dell’ultimo mese, per quanto alcuni anche di grave entità, non aveva generato concreti rischi di escalation sino ad oggi. Nemmeno l’attacco alle due petroliere del 13 giugno scorso, che aveva determinato una decisa condanna da parte degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran (mentre molti tra gli europei avevano manifestato un deciso scetticismo), aveva in realtà alzato l’asticella del rischio oltre la misure del rischio.
L’episodio che ha mutato il quadro della sicurezza e innalzato pericolosamente il livello del rischio è invece accaduto ieri, quando un drone Global Hawk da 130 milioni di dollari è stato abbattuto dagli iraniani in circostanze poco chiare, secondo gli americani mentre era in volo nello spazio aereo internazionale e secondo gli iraniani all’interno dei propri confini.
L’abbattimento di un mezzo americano, sebbene senza equipaggio e senza il recupero del relitto (che avrebbe comportato il rischio di accesso alle sofisticate tecnologie degli apparati di sorveglianza) determina in ogni caso un precedente di crisi che ovviamente non lascia indifferente la politica americana, nell’ambito della quale le frange più radicali chiedono oggi a gran voce l’adozione di una decisa e ferma risposta.
Risposta che, secondo quanto riportato dal New York Times, avrebbe dovuto essere portata nel corso di un’operazione militare arrestata tuttavia dal presidente Trump all’ultimo momento.
Una decisione che ha sollevato enormi interrogativi, lasciando intendere che le informazioni fornite al presidente circa l’episodio dell’abbattimento del drone siano state frammentarie ed opache, e certamente non sufficienti per ordinare l’avvio di un’operazione militare che avrebbe potuto a sua volta innescare un conflitto in piena regola.
Secondo alcuni, inoltre, tale controversa operazione potrebbe essere stata letta del presidente come un tentativo di qualcuno (Bolton?) per forzare la mano di Trump, generare un conflitto e mettere le istituzioni americane di fronte al fatto compiuto dell’escalation. Una mossa che il presidente avrebbe giudicato inaccettabile e inopportuna, arrestando all’ultimo momento l’operazione militare contro l’Iran.
Cosa può quindi accadere adesso? Di fatto sono tre gli scenari possibili. Il primo, quello ottimale, è costruito sulla decisione degli Stati Uniti di non lanciare un’operazione militare contro l’Iran quale ritorsione per l’abbattimento del drone, nell’intento di depotenziare la crisi cercando nel minor tempo possibile di ritornare ad un quadro di stabilità. Il secondo scenario è invece quello costruito sull’ipotesi della necessità politica di una ritorsione militare, attraverso tuttavia un raid aereo contro obiettivi iraniani al di fuori del territorio nazionale (in Siria, o Iraq, ad esempio), nell’ottica di dare una risposta a Teheran calmando l’animosità della politica interna a Washington, e sperando che questo non porti ad una reazione iraniana, generando anche in questo caso un rapido depotenziamento della crisi.
Il terzo, e pessimistico scenario è invece quello di un attacco fulmineo e isolato sul suolo iraniano, colpendo obiettivi militari presumibilmente di scarsa rilevanza, nell’ottica di lanciare un forte segnale politico al quale gli iraniani, tuttavia, potrebbero rispondere pragmaticamente con l’inerzia (come fecero nel 180 a seguito del fallito blitz di Tabas o anche più di recente a seguito dei molti attacchi subiti dagli israeliani) o al contrario cercando ci colpire interessi americani nella regione, aprendo il vaso di Pandora di quel conflitto che nessuno vuole ma che tutti rischiano di dover subire a causa dell’incapacità di gestire le più elementari regole della diplomazia internazionale.