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Perché è così difficile applicare la legge Scelba sull’apologia del fascismo?

Simone Fontana 4 MAY, 2019
La cronaca ha rimesso al centro del dibattito la “libertà di espressione” da accordare ai movimenti neofascisti. La legge italiana in materia è chiara, ma la sua applicazione spesso farraginosa.

Dallo striscione degli ultras della Lazio alla manifestazione in memoria di Sergio Ramelli, dal concerto nazi-rock organizzato da Veneto Fronte Skinheads in un padiglione del comune di Cerea alle disavventure della famiglia Mussolini sui social network. La cronaca delle ultime settimane – complice la ricorrenza delle celebrazioni per il 25 aprile – ci ha più volte messi di fronte al tema dell’estrema destra e dell’atteggiamento che una comunità democratica dovrebbe riservare a manifestazioni di nostalgia per ideologie totalitarie come il fascismo.
Ma mentre si discute dei confini della censura sul web e dell’opportunità di dar voce a esponenti di movimenti variamente ispirati al Ventennio, l’ordinamento giuridico italiano possiede da tempo una norma per sanzionare l’apologia del fascismo. Si tratta della legge 645 del 1952, la cosiddetta Legge Scelba, nata dalla necessità espressa in una una disposizione transitoria e finale della Costituzione e ritoccata con un successivo intervento del 1975, ma la cui applicazione è risultata nel corso degli anni farraginosa ed eccessivamente discrezionale.
Il saluto romano
Uno degli ambiti in cui la giurisprudenza italiana fatica a trovare un’interpretazione uniforme è sicuramente quello che riguarda il saluto romano. Sul segno di riconoscimento del regime fascista – in questi giorni al centro di polemiche anche a causa di un discusso servizio del Tgr Emilia-Romagna – si sono susseguite sentenze di segno opposto, anche in riferimento a episodi molto simili tra loro.
La fattispecie, oltre che dalla Legge Scelba, è regolata anche dalla Legge Mancino del 1993, che all’articolo 2 punisce “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali” di organizzazioni, associazioni o movimenti “aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
Lo scorso 30 aprile il Tribunale di Milano ha assolto quattro dirigenti di Lealtà e Azione, accusati di apologia del fascismo nel 2016 per aver mostrato il saluto romano al campo X del cimitero Maggiore di Milano, dove sono sepolti i caduti fascisti della Repubblica Sociale di Salò. Secondo il giudice “il fatto non sussiste” perché quella degli imputati sarebbe stata una “manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita”.
Poco più di cinque mesi prima, lo stesso tribunale aveva tuttavia preso una decisione molto netta in senso opposto, infliggendo una condanna per dei saluti romani inscenati nello stesso cimitero, appena due anni prima. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice Luigi Varanelli affermava che “la manifestazione fu dichiaratamente volta a celebrare non i defunti ma la nascita del movimento fascista” e dunque “non commemorativa nel senso minimalista, ma rievocativa“.
Il “problema” della norma
La Legge Scelba vieta la “riorganizzazione del disciolto partito fascista” e prevede multa e reclusione in caso di violazione della norma, la cui applicazione viene preferita a quella della Legge Mancino, considerata meno specifica. Entrambe le leggi, tuttavia, devono contemperare il diritto costituzionalmente garantito alla libertà di pensiero, che può essere compresso solo in nome di un’urgenza che la Corte costituzionale nella sentenza 74 del 1958 ha individuato nel “concreto pericolo per l’ordinamento democratico”.
Al giudice è dunque affidata la discrezionalità nello stabilire quanto il pericolo sia effettivamente concreto, una prerogativa che la Cassazione ha fin qui interpretato seguendo due orientamenti differenti. Il primo sottolinea il carattere pubblico della manifestazione tipica del disciolto partito fascista, sanzionando la volontà di raccogliere adesioni e consensipropedeutici alla sua ricostituzione, mentre il secondo – più restrittivo rispetto alla norma – assegna la priorità all’articolo 21 della Costituzione, scegliendo di non punire le manifestazioni, anche pubbliche, di carattere commemorativo.
Il deputato del Partito democratico Emanuele Fiano nel 2017 ha provato ad aggirare tale discrezionalità proponendo un disegno di legge che introducesse il reato di “propaganda del regime fascista e nazista”, ma il tentativo è naufragato con il termine della scorsa legislatura, anche in seguito alla dura opposizione del Movimento 5 stelle, che in commissione Affari costituzionali aveva definito il provvedimento “sostanzialmente liberticida”.