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MONDO ARABO. Tasso di natalità tra rivoluzione e contraddizione

Alessandra Mincone 27 maggio 2019
Nei 49 paesi oggetto di un recente studio dell’Università di Yale si registra un’inversione di tendenza rispetto al secolo scorso: diminuisce il numero di figli per donna, un declino dovuto a due fattori diversi e opposti, pianificazione familiare dovuta a una maggiore istruzione e minori possibilità economiche. Con qualche eccezione.

Nel mondo arabo lo sviluppo di una silente “rivoluzione” delle attitudini delle donne sta producendo un evidente abbassamento dei tassi di maternità: è quello che ha svelato un recente studio condotto dalla professoressa Marcia Inohrn dell’ Università di Yale e in seguito supportato dalla politologa Diane Singerman.
Si parla di un vero e proprio declino del tasso di natalità, giustificato da numerose condizioni e contraddizioni, dove da un lato i modelli di nuclei familiari si trasformano in maniera più responsabile rispetto alle possibilità sociali di istruzione ed emancipazione generale, mentre dall’altro lato si percepiscono più limiti materiali dovuti a fattori economici che non permettono con risorse minime l’allargamento delle famiglie arabe.
Se dal 1975 al 1980 le statistiche riguardanti il mondo arabo dimostravano un aumento vertiginoso dei tassi di fertilità rispetto al resto del mondo, alcuni degli stessi paesi che in quegli anni vedevano tassi di fertilità al di sopra dei 7.0 figli come Kuwait, Libia e Siria oggi stanno vivendo una drastica diminuzione dei tassi di natalità e un rapido invecchiamento della popolazione. Secondo i dati della Central Intelligence Agency aggiornati al 2018, Kuwait, Libia e Siria (che citiamo come Stati campione) toccano rispettivamente i 2.35, 2.03 e 2.44 bambini per donna. Uno dei paesi arabi che vive un maggiore calo demografico sembra essere l’Iran, dove si registra una diminuzione del 70% delle nascite con appena un tasso di fertilità di 1.96 bambini per donna.
L’agenzia Al Jazeera, in un articolo di Inaara Ganji e Muhammed Chaudary, scrive degli aspetti “rivoluzionari” legati all’abbassamento della fertilità delle donne nel mondo arabo a maggioranza musulmana, citando quelle che sono descritte come le possibili valvole che hanno mosso tale “rivoluzione”. In particolare si parla dei nuovi livelli di scolarizzazione e dell’utilizzo di metodi contraccettivi, che consentirebbero alle donne arabe una nuova affermazione di sé nella società e soprattutto una necessità di autodeterminarsi attraverso l’istruzione e la stabilità economica, come nel ventennio precedente non veniva permesso né stimolato.
Sempre in riferimento ai dati statistici forniti dalla Cia, nel 2009 la Siria prevedeva una spesa pubblica per l’istruzione pari al 5,1% del PIL del paese e nel 2015 presentava un tasso di alfabetizzazione che superava l’80% della popolazione, nonostante l’accesso all’istruzione per i minori venisse fermato all’età di soli 9 anni. Sull’esempio della Siria, inoltre va specificato che fino al 2011 la maggioranza della forza lavoro compresa tra i 15 e 24 anni era composta per oltre il 70% proprio dalla manodopera femminile, dunque, generando nelle donne una posizione di responsabilità salariale che nel tempo ha fatto bene i conti prima di mettere al mondo dei figli a cui tuttora è impossibile garantire un’aspettativa di vita futura dignitosa.
Rispetto invece all’accesso alla salute e ai metodi contraccettivi, per quanto questi ultimi possano rappresentare una reale maniera rivoluzionaria di affrontare in modo coscienzioso il fenomeno della riproduzione sessuale, va considerato che se i dati siriani risalenti al 2009 ne dimostravano l’utilizzo del 53,9% per le donne in età fertile, oggi a causa della guerra i dati reali di accesso ai servizi medici fondamentali non risultano affatto positivi né estendibili all’intera area nazionale. Basti pensare all’area arida di Rukban ai confini con Iraq e Giordania, un campo profughi informale per i siriani dal 2014 e per cui l’Organizzazione mondiale della sanità nel gennaio 2019 ha espresso forti preoccupazioni per l’assenza di presidi sanitari, a seguito dell’aumento del tasso di mortalità infantile, di malnutrizione e deterioramento soprattutto per donne e minori, colpendo oltre 40mila persone a seguito dei conflitti interni al paese e all’impossibilità di poter emigrare per curarsi.
Sembra chiaro che nella realtà dei fatti, la citata rivoluzione della riproduzione sessuale nei prossimi anni si potrebbe leggere come un problema demografico senza precedenti in molti dei 49 paesi arabi, e specie in quelli del Golfo, dove il tasso sostitutivo – che a oggi, in ben 5 paesi arabi è al di sotto della media mondiale, come dichiarato dalle Nazioni unite -, potrebbe continuare a calare provocando di conseguenza anche un calo della manodopera giovanile e una crescita del tasso di invecchiamento della popolazione che sta sfiorando quasi la media degli 80 anni di aspettativa di vita.
Se la problematica demografica che riguarda i 49 paesi arabi è riscontrata con il declino della natalità del quasi 50% e del pericolo di svuotamento, va specificato anche che nel ‘900 la popolazione mondiale è quadruplicata, passando da circa un miliardo e mezzo di persone a oltre 7 miliardi. La transazione demografica che ha caratterizzato la nostra epoca è oscillata da un alto livello di natalità e di mortalità, culminando oggi a un livello minimo di entrambe.
Vale la pena citare anche altri esempi in Medio Oriente, di territori laddove le contraddizioni legate alle difficili condizioni materiali di vita dovrebbero far presagire un declino della fertilità e un aumento della mortalità con basse aspettative di vita almeno per la popolazione araba. Analizzando il caso dei dati demografici che riguardano gli abitanti israeliani e palestinesi, inclusi nella Striscia di Gaza, si nota che dal 1948 è stato registrato, al contrario, un tasso di fertilità addirittura decuplicato.
Nel 2018 la popolazione in Israele vantava un aumento delle nascite pari a 2.63 figli per donna, mentre nella Striscia di Gaza si contano 3.97 bambini per donna, nonostante i tassi demografici delle istituzioni palestinesi non vengano aggiornati e comunicati con chiarezza, così anche come i dati che riguardano i decessi.
A essere interessate da alti tassi di natalità sono due fasce della popolazione israeliana: la comunità haredi, ultraortodossi ebrei di origine europea, economicamente avvantaggiata dagli apparati religiosi che consentirebbero di sostenere oltre sei figli per nucleo familiare, e la comunità beduina di religione musulmana, che nel tempo ha fatto i conti con politiche razziali, a causa per esempio del tentativo di emanare una legge sulla sterilizzazione, ma che tuttora nonostante una legislazione che teoricamente vieterebbe la poligamia vede in piedi ancora le famiglie “allargate”, dove si contano in alcuni casi più di 20 figli per uomo.
Nella città di Gerusalemme, caratterizzata dalla presenza di palestinesi cristiani, musulmani ed ebrei, si registrano tassi che fanno della città santa quella più prolifera tra gli Stati del Vicino Oriente industrializzato. Ma nonostante ulteriori pressioni esercitate sulle natalità dallo Stato di Israele, anche l’ong israeliana Yad Ezra che promuove aiuti alimentari nel centro della città ha dimostrato come l’aumento della natalità stia provocando maggiori tassi di mortalità e denutrizione dei bambini già nella fase gestionale, senza considerare che circa un bambino su tre in Israele vive al di sotto delle soglie di povertà e che in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza l’insufficienza alimentare e sanitaria colpisce più del 50% della popolazione totale.
Conflitti sanguinosi, tentativi di epurazioni etniche e condizioni materiali insufficienti per il fabbisogno reali di tutti, a quanto pare non scalfiscono la necessità di procreazione: anche in Giordania, Egitto e Yemen, nonostante la carenza di risorse prime, in conflitti e la dilagante disoccupazione, si registrano delle crescite costanti dei tassi di natalità, che superano i tre bambini per donna.