General

Ecco perché tutti noi c’entriamo con la Libia

Myrta Merlino 16/04/2019
Da oggi pomeriggio sono ambasciatrice dell’Unicef. Per combattere l’indifferenza.

Ma che c’entro io con la Libia? Che c’entro con Haftar, con Sarraj, con i centri di detenzione, con le motovedette, i campi profughi e la rotta del Mediterraneo Centrale verso l’Italia?
Io che da anni nella mia trasmissione mi occupo della politica di casa nostra, di economia, dei problemi dei cittadini. Che tutti i giorni parlo con gli esodati, i truffati delle banche, con chi ha perso il lavoro ma, con chi si sente fragile ed impaurito qui a casa nostra. Non parlo di Libia.
C’entro, eccome se c’entro. E non solo io, c’entriamo tutti noi. C’entrate anche voi. E vi spiego il perché.
• Perché Ibrahim è partito dall’Africa Occidentale e dopo un viaggio infinito è arrivato in Libia dove è rimasto bloccato per sette mesi. Lì è stato violentato e torturato più volte, spesso anche nei centri di detenzione ufficiali.
• Perché al migliore amico di Ibrahim hanno mutilato i genitali, per impedirgli di fare sesso.
• Perché in Libia, quando a Bani Walid iniziano la “pulizia”, come la chiamano lì, mettono in fila uomini e donne, nudi. Le donne sono costrette a masturbare gli uomini. Se hanno un’erezione, le guardie tagliano loro il pene, altrimenti violentano le donne con un bastone. Muoiono in moltissimi. Ecco perché la chiamano “pulizia”.
• Perché un rapporto interno del Ministero degli Esteri tedesco descrive “condizioni simili a quelle dei campi di concentramento” nelle prigioni private in cui si trovano rifugiati e migranti.
• Perché in molti Paesi dell’Africa c’è la guerra, ed è questo il motivo per cui i profughi scappano. In Nigeria in 4 anni più di 3.500 bambini sono stati reclutati da gruppi armati e utilizzati nel conflitto in corso.
• Perché alzando lo sguardo al mondo intero, più di 175 milioni di bambini non sono iscritti alla scuola dell’infanzia.
• Perché non è vero che non possiamo fare niente.
• Perché “se la gente ti tratta come un essere umano, con dignità e solidarietà, allora puoi superare il trauma”, dicono molti migranti. Semplice no?
Da oggi pomeriggio sono ufficialmente ambasciatrice dell’Unicef. Molte di queste storie, molti di questi numeri, sono contenute nel rapporto “Oltre un milione di ferite” redatto dalla Women’s Refugee Commission che ho potuto leggere in anteprima proprio grazie a Unicef.
Ho un compito apparentemente banale, in realtà complicatissimo: combattere l’indifferenza. Accendere la luce sull’orrore e sul dolore di queste persone, sulle ingiustizie subite da chi è perseguitato, torturato, annientato.
Perché ripetere gli errori del passato sarebbe imperdonabile.
Le storie che ho letto mi sono rimaste dentro la pelle. Mi hanno fatto piangere. Sia chiaro, il mio non è un onore, è un impegno. Chi sa, ha il compito di far conoscere a tutti ciò che sta accadendo.
Io lo considero un dovere, da donna, da mamma, da giornalista, e oggi anche da ambasciatrice di Unicef. Ora che mi hanno acceso la luce, io non la spegnerò più. Mai più.