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Le donne del Kurdistan (Prima parte)

Mirca Garuti 18 marzo 2019
Reportage dentro il femminismo curdo. Nella prima parte Mirca Garuti ci porta nell’organizzazione interna, politica e culturale, del campo profughi di Makhmour nel Kurdistan iracheno.


Storicamente la donna, in tutto il mondo, ha sempre dovuto subire differenze sostanziali nei rapporti sociali. Una discriminazione senza confini.
A parte alcuni esempi di società matriarcali, molto lontane nel tempo, il mondo si è sempre retto sul patriarcato. La forma di violenza più usata era quella del “delitto d’onore”. Un tipo di reato caratterizzato dalla motivazione soggettiva di chi lo commette per salvaguardare una forma di onore o reputazione verso alcuni ambiti relazionali come per esempio il matrimonio, i rapporti sessuali e la famiglia. Ancora oggi, in alcune legislazioni, l’onore è inteso come un valore socialmente rilevante di cui bisogna tenerne conto sia ai fini giuridici che in ambito penale.
I modi utilizzati per difendere l’onore spaziano da una violenza fisica, psicologica (privazione della libertà, istruzione, cibo e induzione al suicidio) fino ad arrivare all’omicidio. In ogni circostanza, il modello di violenza maschile resta dominante. Le guerre in genere e i genocidi contribuiscono poi ad aumentare le violenze di genere e l’uso del codice d’onore.
L’emancipazione femminile nel mondo si è sviluppata in tempi e modi diversi.
La donna curda ha iniziato un suo percorso negli anni ‘80 e ‘90 nel momento in cui le donne sono state elette in parlamento, hanno iniziato a prendere decisioni ed a organizzarsi in piccole cooperative per aiutare la famiglia, sono diventate giornaliste, scrittrici, avvocate. Tutto questo anche perché si sono sostituite ai loro compagni, mariti, fratelli, padri, messi in carcere.
Il movimento del PKK ha riconosciuto alla donna curda una doppia oppressione: prima dal colonialismo e poi di genere. Per questo Ocalan ha sempre parlato della necessità di mettere in atto una doppia liberazione della donna. La scelta quindi di seguire il movimento diventava e diventa ancor oggi, un modo per liberarsi dall’oppressione della famiglia, della società e, allo stesso tempo, avere la possibilità di accedere ad una formazione culturale. Non necessariamente questa scelta obbliga la donna a scegliere di andare in montagna a combattere, ma ci sono altri modi per aiutare il proprio popolo, come ad esempio, organizzare seminari, raccolta fondi, insegnare ad altre donne ed attività relative alla comunicazione.
Il movimento femminile curdo è riuscito anche a sviluppare strutture autonome in diversi settori e proprio per questo le donne del Kurdistan oggi sono in grado di poterci insegnare tantissime cose. Grazie alla loro determinatezza e sicurezza, sono in grado di affrontare la dura realtà di una lotta in cui possono trovare la morte. La loro lotta è la lotta di tutte noi. Obiettivo, riuscire ad ottenere una vera parità di genere e non essere più solo madri e mogli.
(Foto di Mirca Garuti)
Il campo profughi di Makhmour in Bashur, Kurdistan iracheno, si trova in pieno deserto, abitato da circa 13.000 curdi fuggiti dalla Turchia nel 1993 ed è gestito mettendo in pratica il Confederalismo Democratico. I residenti del campo cercano di sopravvivere cercando di non essere dimenticati dalla comunità internazionale intrecciando relazioni con alcune organizzazioni che si occupano di diritti civili. La speranza di poter vedere realizzati i loro sogni, nonostante tutte le difficoltà ed il senso d’abbandono, continua a vivere dentro i loro cuori.
L’Associazione verso il Kurdistan di Alessandria da cinque anni si reca nei territori del Bashur per realizzare un progetto relativo alla costruzione di un ospedale nel campo di Makhmour. Questi viaggi permettono non solo di seguire lo sviluppo di questo progetto, ma anche di conoscere sia la realtà in cui vivono i profughi curdi e sia la situazione di questo paese immerso tra lotte interne, regionali e internazionali.
Quello che tutti chiedono è …raccontare, spiegare al mondo, chi sono e cosa vogliono, proprio perché l’informazione diretta di chi ha visto e sentito, è quella che rappresenta la verità. Quasi nessuno sa che esiste un campo profughi in mezzo al deserto che si chiama Makhmour organizzato con un sistema democratico dove le donne contano, dove le donne non sono solo madri e serve e dove da vent’anni una forte resistenza ha permesso loro di continuare a vivere una vita dignitosa e piena di speranze.
Conoscere queste donne, parlare con loro, osservare i loro visi, i loro sorrisi, sentire la loro forza, mi ha riempito il cuore. Sono rimasta, insieme alle altre donne del nostro gruppo, ospite di una famiglia del campo. Ospite può essere una parola fredda, noi in realtà ci siamo sentite subito integrate all’interno di questo nucleo familiare. Vivere per cinque giorni all’interno di questo campo ci ha permesso, attraverso gli incontri con diversi comitati, di capire meglio il sistema del Confederalismo Democratico con il quale s’intende cambiare il tipo di società in cui noi tutti ci troviamo.
Il campo è diviso in 5 zone e ogni zona in 4 quartieri. E’ gestito da due Assemblee istituzionali, una Popolare e una delle Donne. Ogni comitato del campo (istruzione, sanità, ecologia, economia, giovani, gineologia ecc,) ha in queste assemblee un suo rappresentante. Ogni quartiere ha una sua assemblea con l’obbligo di riportare a quella Popolare ciò che è stato discusso e deciso. L’assemblea Popolare è convocata ogni due mesi, mentre quelle di quartiere una volta alla settimana. I problemi sono risolti normalmente nelle assemblee di quartiere, ma se si presentano complicazioni e non sono risolvibili, si passa all’Assemblea Popolare. Ogni due anni c’è il Congresso del campo per eleggere i nuovi rappresentanti delle due assemblee istituzionali.
Nella Assemblea Popolare ci sono due co-presidenti, un uomo e una donna, mentre in quella delle Donne il Presidente è uno solo.
L‘assemblea Popolare è composta da 131 membri e 31 di questi formano il comitato di controllo.
L’assemblea delle donne, nata nel 2013 è composta da 81 donne elette solo dalle donne, di cui 33 fanno parte anche di un Comitato ristretto e di queste, 9 sono co-presidenti nelle varie istituzioni, come per esempio sindaco e assemblea popolare. Ogni istituzione (scuola, sanità, economia, cultura, donne, orfani, lavoro, ecologia, gineologia) vede sempre la presenza di un uomo e di una donna e queste nove donne le rappresentano.
Le 33 donne del Comitato ristretto si occupano solo dell’Accademia delle donne. Il loro lavoro è quello di ascoltare, aiutare le donne del campo nei loro rapporti con il mondo maschile, marito, padre, fratelli ma anche con se stesse fornendo informazioni sulla salute femminile, controllo delle nascite, istruzione, educazione dei figli. Da quando è in funzione questa Accademia, si è constatato, infatti, che le donne hanno acquisito maggiore consapevolezza di se stesse proprio grazie alla possibilità di parlare con altre persone disponibili ad ascoltarle ed a cercare di risolvere i loro problemi, paure ed insicurezze. Non sono più sole.
Si sta cercando di uscire da una mentalità di società patriarcale anche se, la maggioranza della società, appartenente ad una fascia di età medio-alta, pensa ancora che la donna sia incapace, non sappia decidere, difendersi, lavorare fuori dalle mura domestiche e che abbia bisogno di un uomo per sopravvivere.
Nel campo non esiste un sistema carcerario. In caso di violenza domestica per prima cosa il Comitato a cui la donna si rivolge cercherà di capire la situazione e successivamente viene convocata un’assemblea popolare pubblica per mettere l’uomo di fronte alle sue responsabilità. L’obiettivo è quello di educare i colpevoli e per fare questo è stato istituito un Comitato degli intellettuali, degli anziani, chiamato “Barba bianca”, ossia dei saggi.
La nuova società all’interno del campo di Makhmour accetta la diversità di genere, il divorzio (in 24 anni solo 10/11 casi) e rifiuta invece il matrimonio con più mogli o con mogli adolescenti. Si sta studiando come affrontare il problema delle ragazze-madri per proteggerle dalle leggi in vigore, anche se per il momento non si è presentato nessun caso. L’Accademia serve anche per imparare a comportarsi nella società tenendo in considerazione il rispetto delle donne.
Nel campo si cerca di mettere in pratica i paradigmi di Ocalan. Ocalan è sempre stato molto sensibile riguardo alla questione della donna e dei bambini e sostiene che, per cambiare una società, la prima rivoluzione passa attraverso la cultura. Per questo, anche in montagna, tutte e tutti gli attivisti curdi trascorrono gran parte del loro tempo a leggere e studiare per approfondire e migliorare la propria cultura, per capire meglio il mondo passato e futuro. I libri in montagna sono nascosti e protetti sottoterra. In montagna la donna è libera ed impara a conoscere la propria importanza.
Nel Centro Giovani, formato da ragazzi e ragazze e organizzato da una Assemblea generale di 70 membri, le ragazze hanno un ruolo attivo, non c’è nessuna differenza tra uomo e donna, tutti possono fare tutto. Parlano, discutono praticamente tutti i giorni, con le persone che vivono dentro il campo per diffondere il concetto del Confederalismo. La rivoluzione culturale è un percorso lungo.
In questo incontro le ragazze ci chiedono cosa facciamo per il popolo curdo. Sono curiose di sapere le nostre esperienze. La loro aspettativa è crescere i figli secondo i principi rivoluzionari.
A MakhmourLe donne del campo possono far parte sia della Cooperativa ed anche dell’Accademia. Incontriamo cinque insegnanti che fanno parte della commissione scuola che coordinano cinque asili con 250 bambini iscritti. Nel settore dell’artigianato, c’è un laboratorio di sartoria con 10 donne che confezionano abiti, divise, tappeti e kefie e un laboratorio artistico dove si insegna pittura e dove sono esposte varie opere. Quest’ultimo è un centro aperto dal 2004 con cinque insegnanti che si alternano per far apprendere, sia ai ragazzi che agli adulti, l’arte di raffigurare il mondo esterno ma anche di riuscire ad esprimere i propri sentimenti, la propria anima attraverso disegni e colori.
L’occasione di un pranzo offerto da una famiglia del campo ci offre la possibilità di raccogliere una breve testimonianza della mamma della padrona di casa. Ci parla di un intenso dolore che parte da lontano ma che non ha mai fine. Hikmet, il nostro interprete, è costretto a fermarsi. Non ha più la forza di sentire quelle parole che lo portano a dover ricordare un proprio triste e doloroso passato sempre presente, impossibile da dimenticare. Entrambi nel ripercorrere a ritroso il loro vissuto si bloccano, le lacrime scendono dagli occhi stanchi. Hanno visto troppa sofferenza e dolore.
La nonna inizia subito con una domanda: “Tutto il mondo ha un proprio stato, perché noi no?”. Poi continua: “Perché siamo terroristi. Noi veniamo ammazzati. Ammazzano donne, donne incinte, bambini, ragazzi, vecchi, ma noi restiamo i terroristi. Sono 40 anni che soffriamo. 20 anni sotto tendoni di plastica e altri 20 in Turchia. Sempre in fuga da un posto all’altro per scappare da case, villaggi distrutti, bombardamenti, carcere e torture. Noi vogliamo il nostro Presidente libero, non più in prigione, non ha fatto niente. Ha solo difeso il suo popolo. La mia famiglia è stata divisa. Io sono scappata dalla Turchia nel 1992. La mia casa era stata bombardata da armi pesanti”.
Si arresta. Qui si interrompe il suo racconto. Non ci resta altro che guardarla negli occhi tristi e carezzarle il viso mentre la rabbia mi assale all’improvviso. Sto pensando alla campagna razzista nei confronti degli immigrati nel mio paese e nel mondo. Chi mai si è fermato anche solo un attimo per capire a fondo il problema? Nessuno mai cerca di comprendere veramente cosa c’è dietro ad una fuga in mare o via terra? Nessuno conosce le storie personali di queste persone. Nessuno le vuole conoscere. Non sapere è meglio, è più semplice, non fa male e non ti obbliga a prendere una posizione.
Vicino all’anfiteatro si trova la sede del Centro Culturale gestito da un Comitato dell’assemblea culturale. L’attività principale è il canto tradizionale. La storia curda è sempre stata raccontata attraverso il canto. Ogni avvenimento, anche il più cruento, veniva raccontato attraverso le canzoni. L’attività culturale è sempre stata portata avanti anche quando questo centro non c’era, non è mai stata abbandonata, perché avrebbe significato perdere la propria identità. Anche qui chi ci spiega come funziona il centro è una donna. Una donna che canta e che ci sottolinea con piacere che al Centro ci si chiama “Compagna o Compagno”, nel senso di compagno di idee, anche tra familiari.
Le origini delle canzoni provengono dal Bohtan, una regione montana turca a sud-est dell’Anatolia, dove il capitalismo non ha trovato terreno fertile, mantenendo così una tradizione della cultura curda viva e non contaminata. Oltre al canto ci sono anche altre attività come il teatro, la danza, il cinema. Il centro non ha mai utilizzato insegnanti esterni, ma sono loro stessi che insegnano. Tutte le arti sono tramandate dalle vecchie generazioni ai giovani. La forza di questo centro sono proprio i giovani con la loro “Assemblea dei bambini” dagli 8 ai 18 anni, di cui il Comitato è solo portavoce, mentre invece sono proprio i giovani che si riuniscono e decidono cosa vogliono fare. Molti bambini di questo campo sono orfani o hanno subito traumi di guerra, per questo nei loro confronti si è sviluppata una forte attenzione. Si cerca così in qualche modo di offrire un mondo diverso, ma soprattutto un mondo scelto da loro. E’ un modello unico nel suo genere in un campo profughi curdo. Un modello importante per tutto il mondo.