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La “primavera algerina” sfida un potere mummificato. E Roma è inquieta…

Umberto De Giovannangeli 02/03/2019
Il paese nel caos: Bouteflika è presidente della nazione dal 1999, ma è quasi completamente assente dal 2013, quando è stato colpito da ictus.

Lo slogan è quello mutuato dalla “rivoluzione dei gelsomini” tunisina: “Ci siamo liberati dalla paura”. E ora vorrebbero liberarsi di una casta militare-affaristica che perpetua se stessa da decenni, bloccando ogni cambiamento, riproponendo per la quinta volta alla presidenza un uomo malato, impossibilitato, simbolo vivente di un potere “mummificato”.
L’Algeria brucia. E sanguina. Un morto, decine di feriti e 45 arresti. È questo il bilancio degli scontri avvenuti ieri ad Algeri durante le nuove manifestazioni contro la candidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika a un quinto mandato. La vittima, riporta la stampa locale che cita i genitori del ragazzo, è Hocine Benkhedda, figlio di Benyoucef Benkhedda, uno dei leader della rivoluzione anti-coloniale, presidente del governo in esilio del Fronte di liberazione nazionale. Il giovane, afferma la famiglia, è morto a causa delle ferite riportate dopo una “violenta carica della polizia”. Secondo i media, 56 poliziotti e 7 manifestanti sono rimasti feriti negli incidenti avvenuti vicino alla presidenza della Repubblica, nel quartiere di Mouradia. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade nella capitale e in altre città, tra cui Orano e Sétif, e anche alcune personalità politiche si sono unite agli appelli alle proteste. A sostenere la marcia nella capitale, tra gli altri, l’ex premier algerino candidato alle presidenziali del 2004 e del 2014 Ali Benflis: “Chiediamo uno Stato democratico, basato sulla sovranità popolare. Oggi, il popolo algerino nel suo complesso dirà no alla versione ufficiale, no alle minacce, no alla repressione, sì alla sovranità del popolo, sì alla vera cittadinanza per tutti – ha dichiarato al sito tsa-algerie.com – La gente vuole la sua autodeterminazione. Come ha sconfitto il colonialismo, il popolo algerino dirà no ai governanti ingiusti e a colui che vuole governare il Paese senza la volontà degli algerini”. Insieme a lui, dalla parte dei manifestanti, anche i tre candidati indipendenti Ghani Mahdi, Tahar Missoum e Rachid Nekkaz. Bouteflika è presidente della nazione dal 1999 ma è quasi completamente assente dal 2013, quando è stato colpito da un ictus.
Cinque anni dopo, la sua salute rimane un punto interrogativo: non è stato nemmeno in grado di annunciare la propria candidatura. Incapace di accordarsi su un successore, l’élite militare e civile algerina – nota come Le Pouvoir (“il potere”) – ha deciso che Bouteflika dovrà candidarsi nuovamente per garantire continuità. Le recenti proteste vanno ben oltre la decisione di Bouteflika. Molti ritengono sia solo la punta dell’iceberg. Gli algerini risentono di una crisi economica: il 30% dei giovani algerini non ha lavoro, la disoccupazione per chi ha meno di 30 anni tocca punte del 54%. Il forte calo delle entrate in questo Paese dipendente dal petrolio – le riserve di valuta estera sono meno di 80 miliardi di dollari – ha peggiorato la situazione: mancano i fondi per “comprare la pace civile”, come ha fatto Bouteflika da quando è salito al potere 20 anni fa.
L’Algeria ha ricevuto più di mille miliardi di dollari dai proventi del petrolio nel periodo 2000-2013, ma la corruzione e la cattiva gestione economica ne hanno ostacolato la crescita e la competitività sul mercato globale. Molti, tra i giovani scesi in strada in questi giorni , non hanno conosciuto altro presidente fuori di lui: nel 2018, secondo l’Ufficio nazionale di statistica, il 45% della popolazione ha meno di 25 anni. Bouteflika ora è a Ginevra (dove è già stato in esilio politico tra 1981 et 1987 per versamenti di denaro pubblico su conti privati, risalenti al periodo in cui era ministro degli Esteri), ricoverato in una prestigiosa clinica in grado di garantirgli la riservatezza necessaria: dal 2014, quando è stato colto da un ictus fortemente invalidante, praticamente non pronuncia discorsi pubblici, evita incontri con ospiti internazionali, si lascia sostituire da gigantografie in occasione di messaggi televisivi o di manifestazioni pubbliche. Ha 81 anni, eppure non cede: nei giorni scorsi, il suo ministro dell’interno ha riportato alla popolazione le indicazioni di voto, “un segnale forte di continuità” con il passato. Vogliamo un presidente che parli! Un presidente che parli con gli algerini, che possa spostarsi per incontrare i cittadini di tutto il Paese, che possa rappresentare il nostro popolo a New York, a Ginevra e negli altri incontri internazionali”, spiega Otman Lahiani, giornalista e saggista algerino in una intervista all’agenzia Dire. Abdelmalek Sellal, direttore della campagna di Bouteflika, ha confermato che domani, domenica, formalizzerà la candidatura del capo dello Stato. Una mossa contestata da molti algerini che ritengono che le sue condizioni fisiche non gli consentano di sostenere un mandato ulteriore. “Sellal, così come il primo ministro, dice che il popolo potrà decidere alle urne, ma conosce benissimo il problema dei brogli nel nostro Paese” commenta Lahiani. “In più Bouteflika non riesce a parlare, non fa un discorso pubblico dal 2012: lui stesso, nel suo messaggio per la candidatura, ha ammesso di non avere più le stesse capacità fisiche di un tempo. La legge impone a chi si candida un certificato medico che attesti il pieno possesso delle facoltà mentali e fisiche e anche questo Sellal dovrebbe saperlo bene”. Sempre rieletto al primo turno con percentuali bulgare (oltre l’80 per cento), e attirandosi sempre l’accusa di brogli elettorali, l’attuale capo dello Stato è anche stavolta il candidato favorito. Opinione diffusa tra gli analisti politici ad Algeri e in diverse capitali europee, in primis Parigi, è che La successione, che prima o poi arriverà, sarà gestita senza trasparenza nei circoli del potere, dove un personaggio occupa un ruolo centrale: Said Bouteflika, fratello minore del capo dello stato, ufficialmente consulente ma di fatto responsabile di ogni contatto con il presidente. “Per gli algerini di oggi – annota nella sua rubrica su Internazionale Pierre Haski, analista di politica estera di France Inter – l’elemento più insopportabile è proprio l’esempio di immobilismo di un presidente muto e inchiodato su una sedia a rotelle. Già alle elezioni del 2014 si era parlato del “mandato di troppo”, ma allora la popolazione si era arresa per rassegnazione. Ora le cose sono cambiate.
La seconda causa delle proteste è demografica. Quasi un algerino su due ha meno di 25 anni e dunque ha conosciuto come presidente solo Bouteflika, vivendo in una confusione crescente dovuta al blocco decisionale…In Algeria è emersa una nuova generazione, meno segnata dalle violenze degli anni novanta. L’esasperazione dei giovani algerini è rivolta palesemente contro un presidente che non parla pubblicamente al suo popolo dal 2012, ma è anche generale. Quasi un terzo dei giovani algerini non ha un lavoro e deve scegliere tra l’arte di arrangiarsi e l’emigrazione. La diversità dei partecipanti, la loro manifesta volontà di evitare ogni strumentalizzazione politica e il carattere pacifico dei cortei conferiscono al movimento un carattere inedito e difficile da controllare, soprattutto per i leader politici abituati alla rassegnazione degli algerini”. Ma l’opposizione politica fa fatica a orientare il crescente malcontento verso la costruzione di un’alternativa vincente. “Nel complesso – annota Federico Borsari, in un approfindito report per l’Ispi – il fronte dell’opposizione appare debole, a riprova dell’incapacità di molti partiti nel creare un fronte comune e convogliare in maniera costruttiva il crescente malcontento sociale causato dalla stagnazione economica interna. Peraltro, le difficoltà dei movimenti di opposizione sono accresciute dal solido legame che persiste tra l’establishment presidenziale e i ranghi militari più influenti, come dimostrato dal recente rimescolamento – il più eclatante dell’era Bouteflika – attuato in seno ai vertici dell’apparato di sicurezza su ordine dello stesso presidente. Questa decisione, di fatto caldeggiata e probabilmente manovrata dal capo di Stato Maggiore dell’esercito gen. Ahmed Gaid Salah, a sua volta legato a doppio filo con gli ambienti politici più importanti, evidenzia l’interesse degli alti circoli militari a mantenere i privilegi ricevuti in cambio del supporto all’attuale governo, in particolare l’accesso a ruoli remunerativi nel settore privato o l’acquisizione di proprietà terriere, evitando nel contempo l’ascesa di altri ufficiali…”.
Gli sconvolgimenti che stanno investendo l’Algeria vengono monitorati con grande attenzione in Europa. Per diverse e corpose ragioni, che vanno dalla geopolitica alla bolletta energetica e alle nuove rotte mediterranee per i migranti. Sul piano geopolitico , l’Algeria – il più grande Paese dell’Africa (dopo l’indipendenza del Sud Sudan) e il decimo Paese più grande del mondo- è una nazione chiave nel contesto magrebino e africano. L’Algeria è allo stesso tempo un importante fornitore di energia per l’Europa. La Commissione europea per il clima e l’energia ha definito l’Algeria un fornitore affidabile e competitivo di gas naturale. Il Paese è il terzo maggiore fornitore di gas all’Ue e l”Ue è il maggiore importatore di gas algerino -la sola Spagna importa metà del suo gas da Algeri. L’Europa dipende dal gas algerino per la sicurezza dell’approvvigionamento e l’Algeria dipende dal mercato europeo per la sicurezza della domanda. L’inquietudine sul futuro del Paese nordafricano investe soprattutto l’Italia. Per due ragioni. Una “energetica”, l’altra legata all’immigrazione e al traffico di esseri umani. La prima: Eni è presente in Algeria dal 1981 e al momento è operatore di 32 permessi minerari. Con una produzione equity di circa 90.000 barili di olio equivalente al giorno, l’azienda del cane a sei zampe si attesta come la più importante compagnia internazionale che opera nel Paese.
L’Eni importa gas per 5,6 miliardi di dollari, che ci permette di non dipendere solo dalle forniture russe. Seconda ragione di inquietudine: a migrazione degli algerini, la harga, è un problema perché uccide molte persone – annota Kamel Daoud, in un pregnante reportage per The New York Times, riportato da Internazionale -. Ma soprattutto è un problema per il governo di Algeri: il fatto che i suoi cittadini intraprendano un viaggio così pericoloso è la prova evidente dei suoi tanti fallimenti, politici ed economici, della sua politica repressiva, della disoccupazione e dell’aumento del costo della vita…”. Tutti, rimarca Daoud, conoscono i corridoi di fuga. Dall’estremità orientale del paese, a circa cinquecento chilometri da Algeri, si parte verso l’Italia. Dalla regione di Orano, nella parte occidentale del paese, la destinazione è invece la Spagna. Per partire bisogna mettere in conto una spesa di quasi mille euro (il salario minimo garantito in Algeria è di 18mila dinari al mese, meno di 130 euro al tasso di cambio attuale al mercato nero), che non comprende l’attrezzatura di salvataggio né provviste. La traversata verso la Spagna, spiega lo scrittore e giornalista algerino, dura un giorno, nel peggiore dei casi due. Il fatto è, che Madrid ha securizzato la “rotta algerina” e questo ha finito per rafforzare la tratta per l’Italia.