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GAZA. «Dalla Marcia del Ritorno può nascere la nuova leadership»

Chiara Cruciati 11 marzo 2019
Intervista a Salah Abdel Ati, tra gli organizzatori delle manifestazioni a Gaza: «I giovani si sentono parte di una dinamica nuova. L’assenza di reazioni internazionali aumenta il senso di abbandono, ma non abbiamo altre opzioni se non la resistenza».

«Il prossimo 30 marzo la Grande Marcia del Ritorno compie un anno. Valuteremo gli errori commessi, le prospettive per il futuro. E lanceremo l’iniziativa ‘Un milione di luoghi’, eventi fuori dalla Palestina, in Medio Oriente e nel mondo per rilanciare la questione palestinese». Dal cortile della Casa internazionale delle donne, Salah Abdel Ati tira le somme di un anno di manifestazioni ininterrotte a Gaza, evento che a molti ha ricordato la prima Intifada.
L’Intifada lui la visse da giovane studente, da responsabile del movimento studentesco a Gaza. Ora, con tante altre realtà, è tra gli organizzatori delle proteste lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele. A Roma è arrivato per una serie di eventi organizzati da Cultura è Libertà, Assopace e Rete Romana, parte del suo tour europeo approdato anche al Parlamento Ue.
Come nasce la Marcia e su iniziativa di chi?
È nata dalla spinta dei giovani, intenzionati a individuare una soluzione diversa da quella di Trump per Gerusalemme, dall’avanzata coloniale israeliana e dal continuo assedio di Gaza. Abbiamo voluto puntare sulla resistenza popolare. Più di un anno fa ci siamo riuniti a discutere, ong, movimenti giovanili, società civile, leader politici, organizzazioni di donne per lanciare un’iniziativa. Con tre messaggi: diritto al ritorno dei rifugiati, unità dei partiti palestinesi e fine dell’assedio a Gaza. Abbiamo individuato gli strumenti e suddiviso le responsabilità. Alla prima manifestazione, il 30 marzo 2018, eravamo un milione. Famiglie, bambini, giovani, lavoratori, rifugiati: per la prima volta da tempo tutti insieme, anche con i partiti politici, a sventolare una sola bandiera, quella palestinese.
Sarebbe dovuta finire il 15 maggio, anniversario della Nakba. Perché avete proseguito?
Era impossibile fermarsi dopo quanto successo in quei giorni, tra il 14 e il 15 maggio: Trump ha spostato l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e l’esercito israeliano ha commesso una strage a Gaza. Israele colpisce ogni forma di resistenza, che sia armata o non violenta. Il solo modo per ottenere qualcosa è fare pressione sull’occupazione: con le manifestazioni, a cui sono seguite quelle in solidarietà in Giordania, Libano e Cisgiordania, abbiamo ottenuto la riapertura del valico di Rafah con l’Egitto, lo scorso anno quasi sempre chiuso.
In Cisgiordania l’Anp ha represso le marce per Gaza.
La polizia dell’Anp ha represso le manifestazioni ma anche messo sotto controllo gli attivisti, convocandoli per interrogatori. Abu Mazen ha molta paura del cambiamento: non vuole la riconciliazione con Hamas a meno che Hamas non gli dia il controllo totale di Gaza, nessun dialogo, solo imposizioni. Viola i diritti dei palestinesi in Cisgiordania come Hamas fa a Gaza. Questa mancanza di unità ci danneggia in un periodo di grave crisi politica e pressione esterna. I palestinesi chiedono un unico progetto nazionale, il ritorno dell’Olp, elezioni parlamentari e presidenziali. Un sistema nuovo, democratico e condiviso.
La marcia ha ancora questo potenziale di pressione politica? Molti ritengono che sia ormai controllata da Hamas.
La Marcia non è controllata da Hamas. A partecipare sono realtà dal basso, giovani, movimenti, ong. Esistono dei comitati per le diverse attività: comunicazione, giovani, donne, Bds, per i rifugiati, per la salute. È vero che Hamas controlla Gaza, è il governo. È una parte importante dell’iniziativa, ma non ne è il leader. Ma a controllare Gaza è anche l’occupazione e le delegazioni che arrivano, come l’egiziana o la qatariota che cercano di avere un ruolo. Nonostante questi poteri e i loro tentativi di far cessare le manifestazioni, la partecipazione popolare alla Marcia continua. Non perché amiamo morire, ma perché amiamo la vita. Se non abbiamo avuto successo nel creare unità politica è per la profondità della frammentazione tra Hamas e Fatah.
Si partecipa per entusiasmo o per disperazione?
Ci muove la frustrazione. Proseguiamo perché vogliamo evitare che i giovani perdano la speranza. Ora si sentono responsabilizzati, dentro una dinamica nuova. Per questo i cecchini colpiscono soprattutto gli adolescenti, per spezzarli. L’assenza di reazioni della comunità internazionale aumenta il senso di abbandono. Noi non abbiamo altra soluzione se non proseguire nella resistenza popolare e investire nei giovani: può nascere una nuova leadership politica, democratica.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati