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ARABIA SAUDITA. Iniziato a Riyadh processo ad attiviste diritti delle donne

Michele Giorgio 14 marzo 2019
Loujain al Hathloul, Aziza al Yousef, Eman al Nafjan e Hatoon al Fassi assieme ad altre attiviste ieri sono state portate davanti ai giudici per rispondere dell’accusa di aver messo in pericolo la stabilità del regno.

A quasi un anno dall’arresto, avvenuto lo scorso maggio, Loujain al Hathloul, Aziza al Yousef, Eman al Nafjan e Hatoon al Fassi assieme ad altre note attiviste della lotta per i diritti delle donne saudite, ieri sono state portate davanti alla Corte penale di Riyadh. Di cosa siano precisamente accusate non è del tutto noto poiché l’udienza si è svolta a porte chiuse.
Al momento degli arresti, pochi giorni prima della fine del divieto di guida alle donne annunciato dal principe, sedicente “innovatore”, Mohammed bin Salman, la procura aveva parlato di sabotaggio della sicurezza e della stabilità del regno e di attività svolte in collaborazione con non meglio precisate forze estere. Poi è scattato il linciaggio dei media che avevano accusato le donne, e alcuni uomini arrestati nella stessa retata, di essere agenti di ambasciate straniere.
Le attiviste rischiano grosso perché il processo non si svolge di fronte ad una corte penale ordinaria bensì davanti ad una specializzata, creata per occuparsi di casi di “terrorismo”, ossia di giudicare gli oppositori politici. Già in prigione le donne hanno vissuto giorni difficili. Sono rimaste per settimane in isolamento e hanno subito abusi e maltrattamenti, denunciano i centri per i diritti umani.
In particolare Loujain al Hathloul che da anni si batte per la fine del sistema di tutori maschi per le donne nel regno. In manette al Hathloul era già finita più volte. Nel 2014 per 73 giorni fu fermata e detenuta mentre tentava di entrare nel paese dagli Emirati al volante di un’automobile. Nel 2015 la rivista Arabian Business la indicò come la terza donna saudita più nota ed influente in ragione del suo attivismo.
Il processo, spiega qualcuno, è un regalo che Mohammed bin Salman fa all’ala più conservatrice del regime saudita per avere il via libera alla (presunta) modernizzazione del paese che ha o avrebbe in mente. Altri lo interpretano come una minaccia rivolta ad attivisti e oppositori.
D’altronde parla molto chiaro il brutale assassinio, lo scorso ottobre a Istanbul, del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, compiuto da agenti sauditi inviati in Turchia, lo dicono tutti gli indizi, proprio dal principe ereditario. La scorsa settimana, al Consiglio dell’Onu per i diritti umani, 36 Paesi, tra cui tutti quelli europei, hanno chiesto a Riyadh di rilasciare le attiviste e gli altri prigionieri politici. Senza successo.