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Policlinico, molestava sessualmente un’operatrice: condannato infermiere

MARIO CONSANI 3 febbraio 2019
Lui sindacalista, lei precaria. Era stato assolto in tribunale: l’Appello ha ribaltato tutto.

Lui era infermiere capo e attivo rappresentante sindacale, lei semplice operatrice socio sanitaria con contratto precario. Per i giudici della Corte d’appello l’ha molestata sessualmente, tanto da meritare una condanna a un anno e otto mesi di reclusione. In primo grado era stato assolto e l’ultima parola spetterà sicuramente alla Cassazione. Ma è una vicenda che ha fatto rumore visto che è successo tutto al Policlinico. Entrambi i protagonisti lavoravano in quelle corsie. E così anche la moglie di lui, infermiera, schierata a difesa del marito. E i testimoni di entrambe le parti, colleghe e colleghi dell’uno e dell’altra.
Opposte le versioni in questa storia: lei denuncia che l’uomo non le dava tregua con le sue avance sessuali; lui rilancia sostenendo che al contrario era la donna a infastidirlo. Il tribunale non crede fino in fondo alla ragazza, mettendo in luce alcune presunte contraddizioni. Ma i giudici d’appello ribaltano il verdetto: colpevole l’infermiere e atti in Procura perché valuti le possibili false testimonianze delle due colleghe che hanno sostenuto la versione del sindacalista. Tutto comincia qualche anno fa, quando la giovane operatrice, in base al suo racconto non potendo più tollerare il comportamento del “capo”, chiede aiuto al Servizio antiviolenze della Mangiagalli e sporge denuncia. La stranezza è che passano solo pochi giorni e la direzione dell’ospedale avvia un procedimento disciplinare nei confronti del sindacalista, oggi 59enne, che in questo modo viene messo immediatamente al corrente dell’indagine.
Da quel momento è tutto un intrecciarsi dei due piani d’inchiesta, quella interno e quella giudiziaria. La ragazza racconta più episodi di molestie subite, l’infermiere replica quasi subito con una controdenuncia per calunnia. E nel frattempo vengono chiamati in ballo i rispettivi testi: per lei un capo sala e un’infermiera, che confermano di aver ricevuto le confidenze della donna; per lui la moglie, che dice di essere stata al corrente delle attenzioni della ragazza verso il marito, e due colleghe della stessa parte lesa. Per il tribunale l’infermiere, difeso dall’avvocata Claudia Manfrè era da assolvere perché «l’ipotesi accusatoria, basata esclusivamente sulla testimonianza della persona offesa» non sarebbe stata pienamente provata «residuando ragionevolmente il dubbio che i fatti si siano svolti diversamente da come rappresentato».
Dubbio che invece non è venuto ai giudici della Corte d’appello, presidente Paolo Carfì, che dopo il ricorso presentato dal legale dalla parte lesa, avvocato Patrizio Nicolò, ha ribaltato il verdetto condannando l’infermiere per violenza sessuale anche se di gravità attenuata e ordinandogli di versare 7 mila euro alla donna come anticipo sul risarcimento dei danni.