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OPINIONE. Perché tagliare gli aiuti USA aiuterà i palestinesi, e la pace

Jeremy Wildeman – Traduzione di Elena Bellini 13 febbraio 2019
Secondo gli analisti Wildeman e Tartir, gli aiuti americani sono sempre stati problematici per i palestinesi, perché “cuciti su misura” sulle strette relazioni USA-Israele.

Gli aiuti americani sono sempre stati problematici per i palestinesi, perché “cuciti su misura” sulle strette relazioni USA-Israele.
A partire dal 1 febbraio, l’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, ndt.) ha ufficialmente interrotto le operazioni nei Territori Palestinesi Occupati; (l’interruzione) è legata all’ATCA – Legge di Chiarimento Anti-Terrorismo, approvata dal Congresso lo scorso ottobre. La legge stabilisce che i governi stranieri che accettano aiuti dal governo degli Stati Uniti possono essere perseguiti nei tribunali statunitensi per i danni derivanti da terrorismo.
Tale iniziativa ha portato l’Autorità Palestinese a dichiarare di non voler ricevere ulteriori aiuti dagli Stati Uniti, e quindi ha posto fine, almeno per il momento, alla presenza dell’USAID nei Territori Occupati.
Tagli dannosi
L’ATCA, che non riguarda solo gli aiuti ai palestinesi, è solo l’ultima di una lunga serie di misure punitive prese dal governo statunitense contro i palestinesi. La più nefasta è stata una serie di tagli dannosi nel 2018, che ha cancellato centinaia di milioni di dollari in finanziamenti a servizi di base e aiuti umanitari per i palestinesi, come per esempio assistenza sanitaria e sostegno ai rifugiati.
La chiusura definitiva dell’USAID, invece, mette fine ai finanziamenti statunitensi a programmi di per sé dannosi per i palestinesi, come i 60 milioni di dollari destinati alle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese.
Questo finanziamento si basava sul presupposto che l’Autorità Palestinese coordinasse con Israele il controllo della sicurezza sui palestinesi. È un investimento chiave che gli Stati Uniti hanno fatto sull’Autorità Palestinese, soprattutto dalla fine della Seconda Intifada nel 2005, per l’addestramento e il finanziamento delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese.
Tali forze vengono sempre più spesso sottoposte a indagini per violazioni dei diritti umani, come l’arresto sistematico e la tortura di pacifici oppositori. Nel contempo, non sono autorizzate a rispondere a episodi di violenza da parte dei coloni israeliani contro i palestinesi, anche se questi costituiscono la più grave minaccia allo stato di diritto e alla sicurezza per i palestinesi della Cisgiordania.
Quindi, quei 60 milioni di dollari in finanziamenti stavano rafforzando il ruolo di Israele – rendendo nel frattempo le vite dei palestinesi più insicure – e spingendo lo slittamento dell’Autorità Palestinese dalla democrazia all’autocrazia.
Palestinesi felici?
Quando, nel 1993, furono firmati gli Accordi di Oslo, vi era un sentimento di ottimismo diffuso secondo cui israeliani e palestinesi avrebbero trovato la pace insieme. Per sostenere il processo, i donatori internazionali – sotto la guida degli Stati Uniti – assicurarono cospicui finanziamenti ai progetti palestinesi di aiuto allo sviluppo per la creazione delle istituzioni di uno Stato palestinese.
Questo perché si pensava che gli aiuti, se associati a quelle istituzioni, avrebbero potuto accelerare la crescita economica palestinese e fornire ai palestinesi un “dividendo di pace”, incoraggiandoli a costruire la pace con Israele.
I precedenti di questo modello si trovano nelle politiche USA risalenti almeno agli anni ‘70, quando l’amministrazione Carter intraprese un approccio depoliticizzato basato sull’idea che palestinesi “felici”, con un lavoro fisso e una struttura amministrativa efficiente, sarebbero stati disponibili a negoziare un accordo sotto occupazione.
Negli anni ‘80, l’amministrazione Reagan tentò di trovare una soluzione pacifica promuovendo gli aspetti economici anziché un accordo politico. Proponendola come iniziativa per la “Qualità della Vita”, gli USA tentarono di promuovere una riconciliazione politica tra Israele e i palestinesi attraverso incentivi economici teoricamente separati dalla politica.
Più di recente, le amministrazioni George W. Bush e Obama si sono impegnate – e hanno finanziato – lo sviluppo dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, sotto la presidenza Abbas sostenuta dall’Occidente, per esercitare il controllo sui principali centri abitati palestinesi in Cisgiordania.
Ufficialmente la speranza era che, dopo una violenta Seconda Intifada, se e quando Israele si fosse sentita sicura, sarebbe stata disposta a fare qualche passo per eliminare le restrizioni sui palestinesi, al fine di riaccendere il Processo di pace.
Il più grande donatore
Sin dalle prime fasi degli Accordi di Oslo nel 1993, gli Stati Uniti sono stati il maggior donatore individuale di aiuti ai palestinesi, secondi solo all’intera Unione Europea. Tutti insieme, i donatori hanno sborsato, dal 1993, oltre 53 miliardi di dollari in aiuti ai palestinesi. Secondo i dati OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndt.), gli Stati Uniti, singolarmente, hanno speso circa 7,3 miliardi di dollari in aiuti ai palestinesi dal 1993 al 2017.
Secondo il Ministero delle Finanze palestinese, gli Stati Uniti sono stati i quarti maggiori donatori all’Autorità palestinese dal 2012 a maggio 2016, con circa 450 milioni di dollari. Dal 1950, gli Stati Uniti sono stati il maggior donatore per i rifugiati palestinesi attraverso l’UNRWA, con più di 6 miliardi di dollari. Nel 2017, gli Stati Uniti hanno fornito circa un terzo del budget dell’agenzia, destinato a 5,4 milioni di rifugiati.
Contemporaneamente, l’economia palestinese, fin dal 1967, è stata rallentata da un processo di regressione che ha lasciato il valore del PIL a meno del 5% dell’economia israeliana, nonostante le dimensioni della popolazione siano simili. Quindi, gli aiuti statunitensi hanno spesso costituito una percentuale molto significativa del PIL palestinese, superando il 10% nel 2009. Questa situazione ha reso gli USA un fattore chiave dell’attività economica palestinese e del finanziamento delle istituzioni dell’Autorità Palestinese.
Aiuti problematici
Gli aiuti statunitensi sono, tuttavia, problematici per natura. Non si basano su un senso di altruistica filantropia o su una neutrale costruzione della pace: devono, invece, essere letti attraverso le lenti delle strette relazioni tra Stati Uniti e Israele.
Gli Stati Uniti sono probabilmente il più stretto alleato di Israele, e sicuramente quello più importante. Dal 1949 hanno versato almeno 134 miliardi (senza adeguamento inflazione) in aiuti ufficiali a Israele. Hanno anche assicurato a Israele la copertura diplomatica, ponendo il veto a risoluzioni ONU contro l’occupazione e, secondo il diritto internazionale, contro il trattamento che Israele riserva ai palestinesi.
Tutto ciò è altamente problematico perché è riconosciuto che il donatore, in un contesto fragile e conflittuale, debba comportarsi nel modo più neutrale possibile, al fine di non causare danno contribuendo a fattori che possono far peggiorare le cose. Come donatore, gli Stati Uniti hanno fatto esattamente il contrario.
Tenere Israele al sicuro
Di conseguenza, piuttosto che beneficiare degli aiuti, i palestinesi, dal 1993, ne sono divenuti dipendenti. Ciò a causa delle pesanti restrizioni poste dall’esercito israeliano su ogni aspetto della vita dei palestinesi, della loro rapida perdita di terra in favore delle colonie israeliane, dei lunghi periodi di violenza e del fatto che, ai palestinesi, non è permesso commerciare liberamente con il mondo esterno.
Nel frattempo, gli aiuti hanno offerto benefici tangibili al governo israeliano. Gli aiuti l’hanno sollevato dai costi dell’occupazione, perché i donatori erano stati disponibili a pagare per i servizi palestinesi, permettendo contemporaneamente a Israele di sfruttare l’economia palestinese spesso mantenuta solvibile dagli aiuti.
Inoltre, gli aiuti esterni hanno assicurato a Israele un subappaltatore (l’Autorità Palestinese) che funge da delegato al mantenimento del controllo sulla Cisgiordania, facendo risparmiare a Israele una fortuna in dollari e vite. Perciò, l’apparato di sicurezza israeliano ha mostrato apprezzamento e persino fatto pressioni per gli aiuti ai palestinesi.
Tuttavia, le posizioni nel governo israeliano sono cambiate insieme alle nuove dinamiche di classe e di razza. Un settore della sicurezza israeliana a lungo dominato dalla “vecchia” elite Ashkenazi (discendenti delle comunità ebraiche europee, secondo l’accezione israeliana del termine) ha perso potere negli ultimi anni, in favore di movimenti più di destra, spesso guidati da politici di origine Mizrahi (discendenti delle comunità ebraiche del Medio Oriente).
Questi politici Mizrahi hanno spesso spinto per l’intensificazione del conflitto contro i palestinesi e per sbarazzarsi definitivamente degli Accordi di Oslo. Il governo Netanyahu ha tratto beneficio dall’ascesa di queste forze politiche e dal suo partner ideologico, l’amministrazione Trump, disposto a militarizzare gli aiuti per costringere i palestinesi a risoluzioni politiche peggiori.
I governi Netanyahu e Trump, come forma di punizione per i palestinesi, sono pronti a disfarsi di programmi a sostegno della vita, continuando a finanziare la sicurezza per mantenere il controllo. Ciò si sta realizzando in vista di un “Accordo del Secolo” statunitense, che dovrebbe soddisfare una serie di obiettivi israeliani, per esempio negare ai rifugiati palestinesi il diritto al ritorno contemplato dal diritto internazionale.z
Una via d’uscita inaspettata
C’è molto di sbagliato negli aiuti statunitensi ai palestinesi. E questo anche senza valutare come venga utilizzato l’USAID, per esempio versando decine di milioni di dollari in sovvenzioni a imprenditori statunitensi privati con un terribile curriculum di mala gestione, incapacità e corruzione.
Non vi è alcun dubbio nemmeno sul fatto che i tagli agli aiuti nel 2018 abbiano avuto effetti negativi. Moltissimi palestinesi dipendevano da quei finanziamenti. Si deve anche prendere atto che, nonostante le politiche del governo statunitense, c’erano molti americani nell’USAID che hanno sinceramente provato a rendere migliore la vita dei palestinesi.
Eppure, una volta limitati gli aiuti statunitensi alla cooperazione per la sicurezza con Israele, rafforzando brutalmente un’occupazione coloniale, i palestinesi sono stati meglio. Inoltre, rifiutare l’USAID riduce l’influenza statunitense, il che può essere una buona cosa, dati i pregiudizi USA e il fallimento catastrofico del processo di pace sotto la leadership statunitense.
Tutto questo potrebbe addirittura portare a un nuovo approccio alla costruzione della pace, a un approccio che lasci a Israele tutto il peso dei costi del dominio sui palestinesi.
In questo modo, l’eliminazione dell’USAID in Palestina potrebbe essere vista come un passo in una nuova, positiva direzione verso la costruzione della pace, che si basi sui diritti umani e sul diritto internazionale, lasciando, nel contempo, finalmente riposare in pace il vecchio e moribondo modello Oslo. Questo metterebbe anche una pietra sopra a un elemento chiave della strategia cartolarizzata degli aiuti statunitensi, sviluppatasi in 25 anni soprattutto per la pacificazione e il mantenimento del controllo sui palestinesi, sotto occupazione, con il pretesto del processo di pace.
La sfida, per i palestinesi, è cogliere l’occasione per ripensare al loro approccio agli aiuti internazionali e assicurarsi che in futuro gli Stati Uniti non riprendano liberamente tali operazioni senza responsabilità nei confronti del popolo palestinese e senza impegnarsi a rispettare le condizioni palestinesi nell’erogazione degli aiuti.
Fino ad allora, i palestinesi dovranno anche assicurarsi che le operazioni del Coordinatore per la Sicurezza USA (USSC) siano interrotte, e si dovrà fermamente respingere ogni tentativo interventista del USSC. È giunto il momento di riconoscere che la chiusura dell’USAID non solo aiuterà i palestinesi, ma sarà anche fondamentale per la costruzione di una sostanziale pace futura. Nena News

Jeremy Wildeman è Ricercatore Associato all’Università di Bath: studia le relazioni internazionali e la politica del Medio Oriente, con specializzazione in sviluppo palestinese, creazione delle istituzioni e relazioni occidentali con la regione. Per quasi vent’anni, inoltre, si è impegnato nel sostegno allo sviluppo giovanile e comunitario nei Balcani e in Medio Oriente