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ALBANIA. Scontro frontale tra governo e opposizione

Marco Siragusa 18 febbraio 2019
Le proteste di sabato scorso sono solo una delle tante fasi della profonda instabilità degli ultimi tre decenni.

Destra e sinistra e i rispettivi leader sono incapaci di offrire una soluzione concreta alla perenne crisi economica. Sullo sfondo la doppia politica estera di avvicinamento all’Europa e mantenimento di saldi rapporti con Turchia e Golfo.
Da molti mesi ormai l’Albania è attraversata da un’ondata di proteste contro il governo del Partito Socialista (PS) guidato dal primo ministro Edi Rama. La manifestazione indetta sabato a Tirana dai principali partiti di opposizione, capeggiati dal Partito Democratico (Pd) di Lulrim Basha, è degenerata con l’assalto di alcuni manifestanti alla sede del governo. Nel frattempo il premier si trovava fuori la capitale per un incontro a Valona con i suoi sostenitori, evento che contribuisce a fornire l’immagine di un paese profondamente spaccato in due.
I manifestanti rivendicano le dimissioni del governo in carica, accusato di sostenere un sistema clientelare e corrotto, e l’indizione immediata di nuove elezioni. Il Ps ha vinto le ultime due tornate elettorali, svoltesi nel 2013 e nel 2017. Alle ultime elezioni i socialisti hanno ottenuto poco più del 48% dei voti contro il 28,8% dei rivali democratici ma il dato più interessante fu quello legato dell’affluenza, crollata al 46,6% a dimostrazione della profonda disaffezione dei cittadini verso i partiti e il sistema politico nel suo complesso.
Con la fine del comunismo di stampo stalinista portato avanti a partire dal 1948 dal Partito del Lavoro, di estrazione marxista-leninista, l’Albania ha dovuto affrontare una complicatissima transizione la cui fine, ad oggi, sembra tutt’altro che conclusa. Le manifestazioni degli studenti di Tirana del 1990 avevano costretto l’allora premier Ramiz Alia a convocare le prime elezioni multipartitiche per il marzo 1991. Nonostante la vittoria schiacciante del Partito del Lavoro le tensioni interne non si erano placate e avevano portato a un massiccio esodo di cittadini albanesi verso l’Europa.
La vicenda della nave Vlora che, nell’agosto 1991, giunse a Bari con oltre 20mila cittadini albanesi rappresenta il caso più emblematico del clima di confusione che regnava nel paese. Nel mese di novembre il partito decise di cambiare il proprio nome in Partito Socialista, sancendo così la fine definitiva dell’esperienza comunista. La liberalizzazione del sistema politico aveva portato alla nascita di una formazione di centrodestra, il Pd guidato da Sali Berisha. La storia dei successivi decenni è stata così caratterizzata dall’alternanza al governo dei due partiti.
Il clima anticomunista diffusosi nel paese relegò i socialisti ad un lungo periodo di opposizione tra il 1992 al 1997. In quella fase il Pd diede il via ad un profondo processo di riforme di chiara ispirazione neoliberale, come il ricorso a massicce privatizzazioni delle imprese statali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale o la considerevole riduzione dei lavoratori del settore pubblico.
Per sostenere l’economia venne creato il cosiddetto schema piramidale, un sistema consistente in una truffa legalizzata adottata da numerose imprese che promettevano, sulla base di nulla, altissimi tassi di interesse ai cittadini che investivano il proprio denaro in esse. Il fallimento totale di questo sistema, con la conseguente perdita dei risparmi di migliaia di cittadini, portò il paese sull’orlo della guerra civile con l’adozione da parte del presidente della Repubblica Berisha dello stato d’emergenza. Le elezioni del 1997, convocate per stabilizzare la situazione, videro il ritorno al governo del Ps che nel frattempo aveva notevolmente cambiato il proprio programma politico ormai completamente allineato al modello neoliberale perseguito fino ad allora dalla controparte. Le differenze tra i due principali partiti erano ormai praticamente inesistenti tanto per quanto riguardo la politica interna quanto per quella relativa alle relazioni internazionali del paese.
Negli anni successivi la situazione rimase pressoché identica con i due partiti che, ogni due mandati, passavano dal governo all’opposizione. Dopo la sconfitta elettorale subita dai socialisti nel 2005 venne nominato segretario del partito il sindaco di Tirana, Edi Rama, attuale premier. Alla crisi economica globale scoppiata nel 2008 si aggiunse l’aggravarsi di quella politica dopo le elezioni del 2009.
Nonostante i socialisti avessero ricevuto circa diecimila voti in più del Pd, quest’ultimo ottenne un maggior numero di seggi in parlamento e quindi la possibilità di formare il nuovo governo. La polarizzazione tra i due schieramenti si manifestò con violenza durante le manifestazioni di piazza organizzate dal Ps nel 2011 che, proprio come successo sabato scorso, si conclusero con l’assalto alle sedi governative. In quell’occasione, però, la repressione fu ben più dura e si contarono quattro morti negli scontri.
Da allora, le tensioni alimentate dalle difficili condizioni economiche della popolazione e da un diffuso sistema mafioso-clientelare non si sono mai placate ma al contrario hanno raggiunto livelli preoccupanti, soprattutto dopo l’ultima vittoria dei socialisti alle elezioni del 2017. Quanto visto sabato è solo una delle tante fasi di una profonda instabilità che colpisce il paese da ormai quasi trent’anni. Entrambi i partiti e i loro rispettivi leader sono stati completamente incapaci di offrire una soluzione concreta alla perenne crisi economica e al raggiungimento di standard minimi dello stato di diritto.
L’attuale governo guidato dal premier Rama è stato al centro di numerosi scandali legati a relazioni poco trasparenti con la criminalità organizzata dedita al traffico internazionale di stupefacenti, settore in cui l’Albania vanta un ben poco invidiabile primato europeo.
L’opposizione del PD di Lulzim Basha non sembra però poter rivendicare particolari meriti nella lotta alla mafia e alla corruzione. Lo stesso Basha, ministro dell’Interno durante le rivolte del 2011, è stato più volte implicato in indagini per corruzione e abuso di potere. Entrambi i leader si presentano ai cittadini come i paladini della giustizia contro il malaffare e come gli unici in grado di portare il paese fuori da una stagnazione economica che costringe ogni anno migliaia di giovani albanesi a emigrare. Sul piano delle politiche interne, in questi tre decenni, i due partiti hanno dimostrato una certa comunanza di idee e di impostazione ideologica apertamente neoliberale.
Le differenze sembrano minime anche per quanto riguarda la politica estera portata avanti in questi anni. Sia il Pd che il Ps considerano l’adesione all’Ue come la prospettiva politica privilegiata. L’Albania rappresenta, però, l’unico paese europeo a stragrande maggioranza musulmana e questo ha importanti ripercussioni nelle relazioni con i paesi arabi del Medio Oriente e con la Turchia. Sia Rama che Basha possono contare su un ottimo rapporto con il presidente turco Erdogan che considera l’Albania come un importante testa di ponte per allargare la sua influenza nel resto della regione.
Il paese può godere di buone relazioni anche con gli Stati del Golfo in cui sono sempre più numerosi i giovani albanesi emigrati in cerca di lavoro, soprattutto negli Emirati Arabi Uniti, grazie agli accordi raggiunti per la liberalizzazione dei visti con paesi come Bahrain, Oman, Qatar e Arabia Saudita. Il rapporto privilegiato con Riad ha inoltre permesso all’Albania di ottenere importanti investimenti, erogati dal Fondo di sviluppo saudita, per il finanziamento di alcuni progetti strategici come la linea stradale Durazzo-Morine e quella Tirana-Elbasan. La decisione del governo albanese di espellere due diplomatici iraniani nel dicembre 2018 è stata pubblicamente sostenuta dal ministero degli esteri dell’Arabia Saudita mentre ha complicato i rapporti con Teheran.
La politica estera albanese non sembra quindi esser messa in discussione dallo scontro tra Ps e Pd. Chiunque risulterà vincitore di questo scontro continuerà, con molta probabilità, la politica di accomodamento sia verso l’Europa che verso la Turchia e i paesi del Golfo adottata negli ultimi anni. 
Alla luce della storia recente del paese, lo scontro tra i due schieramenti sembra quindi assumere sempre più i caratteri di un conflitto tra due diversi blocchi di potere in competizione per la gestione dello Stato, secondo obiettivi ben distanti dalle reali necessità dei cittadini albanesi. Chiunque esca vincitore da questa battaglia dovrà fare i conti con un diffuso malcontento della popolazione e con la necessità di dare una decisa sterzata all’attuale sistema nel suo complesso.