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Yemen, la silenziosa tragedia di un Paese allo stremo

Regina Catrambone 17/01/2019
Il 21 dicembre 2018, mentre le luci sfavillavano e per le strade delle nostre città risuonavano le canzoni natalizie, venivano pubblicati dall’UNHCR dei dati a dir poco allarmanti in un aggiornamento sulla situazione in Yemen, ma l’euforia del Natale evidentemente lo ha fatto passare in secondo piano. Proprio per questo voglio riprenderlo adesso che lo scintillio Natalizio si è spento.

Ventidue milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza, 2 milioni sono sfollati interni e fra di loro l’89% lo sono da oltre un anno; 1 milione di sfollati interni è rientrato nella propria città di origine senza nessuna garanzia di trovare cibo e cure mediche.
Stando alle ultime notizie, alcune famiglie sarebbero andate a vivere nelle grotte, nonostante abbiano urgente necessità di cure mediche e aiuti umanitari. Da un lato, il miracolo del Natale celebrato troppo spesso secondo formule e riti esteriori, dall’altro le grotte che accolgono famiglie in fuga che non hanno nulla da mangiare.
L’abbondanza, le decorazioni, il calore familiare, gli amici, le famiglie che si ritrovano attorno a una tavola imbandita stridono terribilmente con le immagini di un Paese allo stremo e di una popolazione che ha dimenticato la pace.
Il 9 gennaio, quando avevamo appena tirato un sospiro di sollievo per i 49 naufraghi che finalmente sbarcavano a Malta, il Sottosegretario Generale per le questioni umanitarie dell’UNHCR, Mark Lowcok, ha pronunciato parole durissime.
La situazione, nonostante gli accordi di Stoccolma e i blandi tentativi di trovare una pacificazione fra le parti belligeranti, rimane “catastrofica” e altri 10 milioni di persone sono a rischio carestia. Metà delle strutture sanitarie non funzionano e anni di privazioni espongono gli yemeniti a gravi problemi di salute che, con le giuste cure mediche, potrebbero essere prontamente risolti.
Come abbiamo visto in Bangladesh, ci si ammala anche a causa della mancanza di adeguati servizi igienici e proliferano le malattie a vettore idrico, fra cui il colera che ha registrato fino a 10mila casi lo scorso ottobre. L’epidemia, ritenuta la peggiore al mondo, dal suo esordio nel 2017 ha fatto oltre 2000 vittime, anche se si sospettano fino a 1.2 milioni di casi totali.
Esattamente come per la perseguitata comunità Rohingya, anche qui a pagare il prezzo più alto sono i bambini che rappresentano fino al 30% dei malati di colera in netto aumento dalla scorsa estate quando un bombardamento ha colpito una struttura per il rifornimento di acqua a Odeida.
Purtroppo, nonostante il Diritto Umanitario vieti esplicitamente di coinvolgere i civili nelle attività belliche e di colpire strutture essenziali per la loro sopravvivenza fra cui scuole o ospedali, abbiamo assistito alla costante violazione di questi divieti.
Anche il conflitto siriano ha visto polverizzare gran parte della rete di infrastrutture interne al Paese e ciò ha reso alcune zone inaccessibili agli operatori umanitari che, invece, in Yemen sono ulteriormente ostacolati dai divieti imposti dalla coalizione saudita.
I principali porti del Paese, fra cui quello di Odeida, sono stati chiusi alle organizzazioni umanitarie e lo scorso dicembre, dopo il cessate il fuoco concordato durante i negoziati di Stoccolma, si coltivavano grandi speranze per l’immediato futuro.
Nonostante i negoziati prevedessero “l’immediato cessate il fuoco nei porti di Odeida, Salif e Ras Issa”, era difficile che ciò che accadesse visto “l’innato conflitto di interessi nella vendita di armi che reitera la sofferenza della popolazione civile yemenita” e “la mancanza di volontà politica a far veramente finire il conflitto”.
Oggi, in attesa dei nuovi negoziati a fine mese, lo Yemen langue ancora nell’indifferenza della comunità internazionale. Il ponte aereo -che si aspettava al più presto nella città di Sanaa per dare immediata assistenza sanitaria all’area settentrionale- tarda ad arrivare, condannando milioni di persone alla sofferenza.
Avendo con MOAS lanciato una raccolta fondi per portare la Phoenix in Yemen e garantire forniture di aiuti umanitari e assistenza medica, osserviamo con grande preoccupazione la mancanza di sviluppi a favore della popolazione civile.
Forti dell’esperienza professionale sviluppata in mare e sulla terraferma dove in un anno abbiamo assistito 87.000 persone, vorremmo essere di aiuto ad una popolazione stremata che sopravvive all’egoismo dei potenti.
In Bangladesh, dopo l’esodo Rohingya, abbiamo subito provveduto a fondare due Aid Station che garantissero assistenza medica primaria ai nuovi arrivati e ai bengalesi che li accoglievano. Abbiamo imparato ad adattarci a un paese colpito da frequenti cicloni e durante la stagione monsonica abbiamo curato chiunque abbia bussato alle nostre porte. Ed è esattamente questo che vorremmo continuare a fare: mantenere viva la speranza in comunità che l’hanno quasi del tutto smarrita fra catastrofi naturali e conflitti.
Per ogni minuto speso a negoziare altre vite umane vanno perdute, per ogni esitazione di natura politica un bambino muore di fame o malattia. L’inazione è una scelta precisa che colpisce le vittime più vulnerabili di guerre su cui non hanno alcuna influenza, ma che subiscono in silenzio.