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Ungheria: la ‘legge schiavitù’ che mette in crisi Orbán

GIANMARCO CENCI – 2 GENNAIO 2019
La nuova riforma del lavoro mette in crisi la vita politica ungherese: ma chi vuole davvero questa nuova legge?

Il campione dei populisti, il punto di riferimento degli euroscettici e delle destre sovraniste d’Europa e del mondo potrebbe non essere così immune alle difficoltà come sembra. Sostenuto da una vasta fetta della popolazione per le sue scelte forti in materia di immigrazione, Viktor Orbán ha dovuto fronteggiare nelle ultime settimane una forte ondata di dimostrazioni e proteste contro la sua nuova riforma del lavoro. Oggetto del contendere riguarda la proposta di aumentare da 250 a 400 le ore di straordinario annuo che è legalmente possibile richiedere a un lavoratore dipendente. Benché dal Governo facciano sapere che la riforma permettere agli ungheresi di guadagnare di più, le opposizioni si sono riversate in piazza per manifestare quella che considerano essere l’ennesima legge illiberale che la maggioranza guidata Fidesz, il partito di Orbán, ha votato negli ultimi anni.
Le opposizioni ritengono infatti che quella che è stata ribattezzata come ‘legge schiavitù’ sia in realtà un grande favore fatto alle grandi aziende, costringendo i lavoratori ungheresi a lavorare in maniera pressoché gratuita. In via teorica, se non è d’accordo, il lavoratore può anche rifiutarsi di fare gli straordinari ma in Ungheria, dove la presenza e le attività dei sindacati sono piuttosto deboli, dire di no al proprio datore di lavoro equivarrebbe a garantirsi una lettera di licenziamento. A questo va aggiunto un altro dettaglio: gli straordinari possono essere pagati ben tre anni dopo il loro effettivo svolgimento e, qualora il dipendente dovesse cambiare lavoro, perderebbe il diritto di riscuotere i soldi che gli spetterebbero. In poche parole, si tratta di un modo piuttosto elaborato per garantire alle aziende più ore di lavoro a costo zero.
L’approvazione di questa legge, promulgata dal Presidente ungherese János Áder, si è resa necessaria a causa della mancanza di manodopera che attanaglia l’Ungheria. Ogni anno, migliaia di persone lasciano lo Stato magiaro per cercare lavoro e fortuna in altre aree dell’Unione Europea; quest’emigrazione non è nemmeno compensata in maniera sufficiente da un’immigrazione proveniente da Paesi extra-europei, scoraggiate dalle politiche anti-immigratorie del Governo di Orbán.
La ‘legge schiavitù’ è però riuscita a compattare il fronte delle opposizioni al GovernoOrbán che, per la prima volta in 8 anni, si trova ad affrontare una vasta compagine di forze che si sono unite per contestare il leader di Fidesz. Dalla sinistra liberale a elementi della destra conservatrice, in varie piazze del Paese (da Budapest ai villaggi rurali, roccaforte del consenso di Orbán) è scesa una buona fetta dell’opinione pubblica ungherese che ha approfittato della situazione per rivendicare un futuro diverso per l’Ungheria. Sotto accusa è andata anche la gestione autoritaria della televisione pubblica e dei mezzi di informazioni in generale, che hanno dato poco risalto alle proteste di piazza delle ultime settimane e che da anni influenzano e plasmano l’opinione pubblica secondo gli interessi delle forze di Governo. Non è un caso che il Governo possa contare dell’appoggio dei 2/3 del Parlamento ungherese: alle recenti elezioni parlamentari, Fidesz ha ottenuto il 49,27% dei voti, ottenendo 133 dei 199 seggi dell’Országgyűlés, l’Assemblea Nazionale ungherese.
Il 2019 è però un anno campale per la vita politica magiara. Fra il 23 e il 26 maggio si svolgeranno le elezioni europee e mai come quest’anno si preannunciano come determinanti per il futuro stesso dell’Unione: Viktor Orbán, il cui movimento è un membro importante del Partito Popolare Europeo, sarà senza alcun dubbio uno dei protagonisti della tornata elettorale. I campioni del sovranismo vedono in lui uno dei principali esponenti di quella lotta all’odierna Unione Europea che tiranneggerebbe incontrastata sui popoli del continente. Tuttavia, in Ungheria sarà anche l’anno delle elezioni locali, con migliaia di comuni, varie assemblee locali e regionali che verranno rinnovate: sulla spinta delle proteste delle ultime settimane, Orbán potrebbe rischiare per la prima volta in 8 anni di subire una clamorosa sconfitta. Nonostante ciò, il Primo Ministro ungherese sembra voler mantenere inalterata la propria strategia politica, per cui l’acceleratore sulla riforma del lavoro e sulla lotta all’immigrazione – che sarebbe un toccasana per l’economia ungherese – rimane premuto a tavoletta.
Che cosa spinge Orbán a andare così deciso con questa riforma, nonostante che si professi da sempre vicino al popolo? Dal responso delle piazze, infatti, appare evidente che il popolo è tutt’altro che incline ad accettare una legge così illiberale, che non ha portato a una protesta più strutturata solo a causa dell’assenza di una rete di sindacati coordinata e della mancanza della cultura dello sciopero in Ungheria (l’ultimo sciopero generale è avvenuto nel 1956, ai tempi dell’invasione sovietica). La risposta va trovata negli interessi del grande capitale internazionale, perlopiù tedesco, che ha negli ultimi tempi fatto grandi investimenti in Ungheria e che ha trovato in questa zona d’Europa così poco tutelata e avanzata in ambito di diritti sindacali una vera e propria miniera d’oro. Dal canto suo, Orbán non può permettersi di indispettire le grandi aziende tedesche che, se non garantite nei loro interessi, impiegherebbero poco tempo ad abbandonare Budapest per altri più favorevoli lidi. Quell’Europa a trazione tedesca che Orbán critica apertamente è la stessa, quindi, di cui egli e la sua Ungheria hanno bisogno.
La situazione è pertanto notevolmente complessa. Orbán appare ancora come l’uomo forte in Ungheria e può contare ancora per molti anni su un vantaggio clamoroso in Parlamento. Tuttavia, il 2019 sembra essere iniziato sotto diversi auspici per l’Ungheria: è l’inizio di una nuova fase?