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SUDAN. Opposizioni unite nel Fronte nazionale, ma Bashir non lascia

9 gennaio 2019, Nena News
Il presidente risponde al popolo in piazza: non me ne vado. Ieri enorme protesta a al-Qadarif dispersa con la forza, mentre 22 partiti si uniscono per chiedere le dimissioni dell’ex generale.

Alla terza settimana di proteste anti-governative, il presidente sudanese Omar al-Bashir risponde alle incessanti richieste di abbandonare il potere che occupa da 30 anni: ieri in una base militare di Atbara, nel nord est della capitale Khartoum, si è rivolto ai soldati per rivolgersi al paese. E mandare un messaggio chiaro: “Non abbiamo problemi perché l’esercito non sostiene i traditori, ma si muove per sostenere la patria e i suoi risultati”, ha detto il presidente, lui stesso ex generale delle forze armate.
Un messaggio che arriva mente le piazze restano piene e la polizia continua a disperdere i manifestanti. L’ultima protesta è di ieri, nella città orientale di al-Qadarif, organizzata dall’Associazione dei professionisti e una delle più grandi dal 19 dicembre quando tutto è cominciato: i poliziotti hanno usato gas lacrimogeni ma anche proiettili veri per svuotare le strade, raccontano i giornalisti recenti. “Libertà, pace, giustizia”, gridano i manifestanti, “La rivoluzione è la scelta della gente”.
Per oggi è prevista una nuova marcia, nella città di Omdurman, anche questa guidata dall’Associazione dei professionisti: “Marceremo verso il parlamento – dice Mohamed Asbat, il portavoce dell’Associazione ad al-Jazeera – per consegnare le nostre richieste e continueremo a farlo pacificamente finché il governo non si dimetterà”.
E se quasi tutto il paese è in stato di emergenza e scuole e università sono chiuse in molte province, sarebbero già 40 i morti, uccisi dalle forze di sicurezza, nelle ultime tre settimane secondo i dati forniti da associazioni per i diritti umani, come Amnesty e Human Rights Watch. Diciassette, secondo il governo. E oltre 800 i manifestanti arrestati, 816 per l’esattezza, fa sapere il ministero dell’Interno. Tanti, troppi. Ieri è arrivata una prima reazione da parte dei paesi occidentali con Stati Uniti, Canada, Norvegia e Gran Bretagna che in un comunicato congiunto hanno espresso preoccupazione per la reazione governativa alle proteste: “Siamo inorriditi dalle notizie di morti e gravi ferimenti di chi esercita il proprio legittimo diritto alla protesta, così come dalle notizie dell’uso di proiettili contro i manifestanti”.
Manifestanti che restano in strada con una richiesta precisa: le dimissioni di Bashir. Le manifestazioni sono iniziate per gli effetti devastanti della crisi economica, con un’inflazione alle stelle, al 70%, e i prezzi dei beni di prima necessità – pane, medicine carburante, in primo luogo – saliti alle stelle, raddoppiati e in alcuni casi triplicati. A monte, oltre a cause strutturali interne ed esterne, dalla corruzione alle ventennali sanzioni internazionali, c’è l’indipendenza del Sud Sudan di otto anni fa che ha fatto perdere a Khartoum due terzi delle riserve petrolifere di cui godeva.
In un primo momento, spaventato dalle proteste, Bashir ha promesso un’inchiesta sulle uccisioni e il mantenimento dei sussidi per le famiglie povere, ma alla gente non basta. Non basta nemmeno alle opposizioni che la scorsa settimana hanno dato vita al National Front for Change, fronte unito formato da 22 partiti politici di diversa estrazione politica, dagli islamisti ex alleati di Bashir alla sinistra: l’obiettivo dichiarato è ampliare il fronte anti-governativo per costringere il presidente a dimettersi e ad aprire a un esecutivo di transizione.
Poco importa, il governo non sembra affatto intenzionato a “trattare”, a riconoscere la legittimità delle richieste, forte del sostegno che ancora una parte della popolazione gli garantisce ma soprattutto dall’appoggio di servizi segreti ed esercito. È forte anche del consenso che la Lega Araba non ritira: è stato proprio Bashir il presidente scelto per fare visita alla fine di dicembre, primo rappresentante di un paese della Lega dal 2011, al siriano Bashar al-Assad, chiara dimostrazione dell’intenzione dei paesi dell’organizzazione di riaprire alla Siria, estromessa all’inizio della guerra civile, quasi nove anni fa.