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SUDAN. Ancora proteste, ucciso un bambino

18 gennaio 2019, Nena News
Salgono le vittime della repressione: ieri la polizia ha ucciso un minore e un medico a Khartoum. Le manifestazioni si allargano al Darfur. Ma Bashir non cede.

Sale il numero delle vittime della repressione delle manifestazioni antigovernative in Sudan: per Khartoum sarebbero 24, per le organizzazioni per i diritti umani, locali e internazionali, almeno 40. Tra questi un bambino e un medico, uccisi ieri a Khartoum. La polizia ha attaccato la marcia che tentava di arrivare al palazzo presidenziale per chiedere le dimissioni del presidente Omar al-Bashir: gli agenti hanno utilizzato i gas lacrimogeni per disperdere la folla.
Secondo fonti mediche, le due vittime sono state portate al Royal Care International Hospital della capitale. Sono stati uccisi, dicono, “dall’uso eccessivo della forza contro i manifestanti”. Ovvero proiettili veri e non semplici lacrimogeni. Il comitato dei medici accusa poi le forze di polizia di aver bloccato le ambulanze dirette in ospedale, impedendo così a molti feriti di farsi curare, e di aver compiuto un’irruzione nell’ospedale Al-Faisal, a Khartoum, e lanciato lacrimogeni all’interno. Avrebbero arrestato alcuni medici.
Da parte loro i manifestanti hanno bloccato le strade principali della città, mentre la polizia compiva raid nelle case di alcuni cittadini. Non solo nella capitale: sarebbero almeno 13 le città investite dalle proteste, da Atbara dove le manifestazioni sono cominciate, a Port Sudan fino alla regione del Darfur che si è unita alla sollevazione negli ultimi giorni. In Darfur, regione simbolo del brutale genocidio compiuto dal governo tra il 2003 e il 2008, dove in migliaia vivono in campi sfollati, sono scesi in piazza per chiedere pace, giustizia e libertà e la cacciata di Bashir. Subito milizie pro-governative, tra cui la temibile Rapid Support Forces, si sono mobilitate per disperdere i manifestanti che hanno ancora in testa le uccisioni di massa durante le proteste del 2013.
Proprio in Darfur, denunciano i manifestanti, il governo ha subito imposto leggi di emergenza. Per questo, aggiungono, c’è voluto del tempo perché la regione si unisse alle proteste nazionali.
In tutto il paese sono oltre 810 gli arrestati, secondo i numeri forniti dal ministero degli Interni. Ma ormai la protesta, iniziata il 19 dicembre, non riguarda più il taglio dei sussidi statali e il carovita, l’aumento folle del prezzo del carburante – triplicato, da 1.24 dollari al litro a 3.31 – né solo la scarsa liquidità nelle banche, ma ha investito la presidenza ormai trentennale di Bashir. Che si difende, addossando la colpa della crisi economica a un complotto internazionale e alle sanzioni dei paesi stranieri sul Sudan. Una “guerra economica”, dice il presidente, ordita da “agenti stranieri” negli ultimi 20 anni.
Per placare la rabbia della gente, devastata dagli aumenti dei beni di prima necessità e del pane a causa dell’incremento del costo dei trasporti, in un paese poverissimo, Bashir ha promesso dal prossimo mese di aumentare i salari minimi e le pensioni di chi “ha sacrificato la propria vita per il paese” e la costruzione di alloggi popolari per i più poveri. L’esecutivo ha poi licenziato il ministro della Salute, Mohammed Abu Zayr Mustafa, nell’occhio del ciclone per l’aumento del costo dei medicinali.
Non solo promesse: il governo ha anche bloccato i social network per impedire l’organizzazione delle proteste. Lo dicono i principali operatori telefonici del paese, Sudani, Mtn e Zain, secondo i quali WhatsApp, Facebook e Twitter non sono accessibili.
Dietro alle proteste c’è la Spa, l’Associazione dei professionisti sudanesi, che include medici, insegnanti, farmacisti, giornalisti, ingegneri. Ha ottenuto, in qualche modo, il sostegno dell’Onu che tramite l’Alto Commissario ai Diritti umani, Michelle Bachelet, ieri ha espresso preoccupazione per “l’eccessivo uso della forza, compresi proiettili, da parte delle forze di sicurezza sudanesi” e chiesto a Bashir di rispettare il legittimo diritto all’espressione della popolazione e rilasciare gli arrestati.