Storie di tortura dalle prigioni israeliane
Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal 25 gennaio 2019 |
Mentre Israele predispone un ulteriore peggioramento delle condizioni dei prigionieri palestinesi, sei ex detenuti raccontano la loro esperienza. Il racconto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal.
Agli inizi del mese, il Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan ha annunciato una proposta di legge per “peggiorare” le già terribili condizioni in cui versano i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
Secondo il gruppo per i diritti umani Addameer, attualmente sono circa 5.500 i detenuti palestinesi negli istituti penitenziari israeliani; tra questi, vi sono 230 bambini e 54 donne. 481 sono in carcere senza regolare processo, in virtù della vergognosa prassi nota come “detenzione amministrativa”.
Parlando alla stampa il 2 gennaio, Erdan ha svelato alcuni punti del suo piano, omettendo però dettagli importanti. Il ministro ha detto che ai detenuti non sarà permesso “cucinare”, ma non ha ricordato che molti prigionieri, soprattutto nella prima fase della detenzione, sono sottoposti a torture e privati del cibo. “Inoltre, non sarà permesso ai membri della Knesset di visitare i detenuti palestinesi,” ha aggiunto Erdan, tralasciando che a centinaia di loro sono già precluse le visite da parte di avvocati e familiari.
Non c’è ragione di dubitare delle parole del ministro, quando promette di peggiorare le condizioni dei detenuti palestinesi. Tuttavia, vale la pena ricordare che chi è trattenuto nelle carceri israeliane – e questa è, di per sé, una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra – vive già in un contesto disumano, in violazione dei requisiti minimi garantiti dal diritto umanitario e internazionale.
Nessuno può descrivere le condizioni nelle carceri israeliane meglio dei prigionieri palestinesi, che hanno sperimentato sulla loro pelle ogni forma di tortura fisica e psicologica, e hanno trascorso anni, talvolta decenni, nel tentativo disperato di non perdere la loro umanità, in ogni singolo istante di ogni singola giornata.
Abbiamo parlato con sei ex detenuti, tra cui due donne e un minore, che hanno accettato di condividere le loro storie con noi, nella speranza che le loro testimonianze possano aiutare a capire meglio il contesto del “piano” di Erdan.
“Mi hanno ucciso il gatto” – Wafa’ Samir Ibrahim al-Bis
Wafa’ Samir Ibrahim al-Bis è nata nel campo profughi di Jablaiya a Gaza. Aveva 16 anni quando è stata arrestata, il 20 maggio del 2005. È stata condannata a 12 anni di carcere, per aver tentato un attacco suicida contro dei soldati israeliani. È stata rilasciata nel 2011 in seguito a uno scambio di prigionieri tra la Resistenza palestinese e Israele.
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
Avevo solo 16 anni quando ho scelto di indossare una cintura esplosiva e di farmi saltare in aria dinanzi a un gruppo di soldati israeliani. Mi sembrava l’unico modo per vendicare Muhammad al-Durrah, il ragazzo di 12 anni che era stato barbaramente ucciso dai soldati israeliani di fronte all’obiettivo di una telecamera, nel settembre del 2000. Quando ho visto in video Muhammad stretto al corpo di suo padre, mentre i soldati gli scaricavano addosso una pioggia di proiettili, mi sono sentita impotente. Era solo un bambino. Ma sono stata arrestata, e chi mi aveva addestrato a portare a termine la missione è stato ucciso tre mesi dopo il mio arresto.
Sono stata torturata per anni, all’interno della tristemente famosa Cella Nove, della prigione di Ramleh, una camera delle torture pensata per quelli come me. Mi hanno infilato un sacco nero sulla testa mentre venivo picchiata e interrogata per ore, per giorni. Hanno liberato cani e topi nella mia cella. Non sono riuscita a dormire non so per quanto tempo. Mi hanno spogliato e poi mi hanno lasciato nuda per giorni. Non mi hanno consentito di vedere un avvocato o di ricevere visite, nemmeno dalla Croce Rossa.
Dovevo dormire su un vecchio materasso lurido, duro come la pietra. Sono rimasta in isolamento nella Cella Nove per due anni. Mi sentivo come sepolta viva. Una volta mi hanno appeso a testa in giù per tre giorni. Ho gridato più forte che potevo, ma nessuno è venuto a liberarmi.
In carcere, mi sentivo tanto sola. Un giorno, ho visto un gattino che si aggirava per le celle, gli ho lanciato del cibo per farmelo amico. Alla fine, si è avvicinato e da quel momento, restava con me per ore. Quando le guardie hanno scoperto che mi faceva compagnia, l’hanno sgozzato di fronte ai miei occhi. Ho pianto per il gatto più di quanto non avessi fatto per me stessa.
Qualche giorno dopo, ho chiesto a una guardia una tazza di tè. Lei si è avvicinata e mi ha detto: “Porgi la mano, così la prendi”. Mi sono fidata, e lei mi ha rovesciato addosso l’acqua bollente, causandomi un’ustione di terzo grado. Ho ancora le cicatrici e dovrei essere curata.
Piango al pensiero di Israa’ Ja’abis, che ha il corpo ricoperto di ustioni ed è costretta a restare in carcere. Penso spesso alle detenute che sono ancora dietro le sbarre.
“Non ci sono parole” – Sana’a Mohammed Hussein al-Hafi
Sana’a Mohammed Hussein al-Hafi è nata nella West Bank. Si è trasferita a Gaza dopo aver incontrato quello che sarebbe diventato suo marito. Ha trascorso 10 mesi in carcere e 5 mesi agli arresti domiciliari con l’accusa di aver trasferito fondi a una ‘entità ostile’ (Hamas).
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
Nel maggio del 2015, volevo far visita ai miei familiari che vivono in West Bank. Mi mancavano da morire perché non li vedevo da anni. Ma al Valico di Beit Hanoun (Eretz), sono stata arrestata dai soldati israeliani. La mia odissea, quel giorno, è iniziata intorno alle 7.30 del mattino. I soldati mi hanno perquisito con metodi umilianti. Hanno cercato in ogni parte del corpo. Mi hanno costretto a denudarmi completamente. Sono rimasta nuda fino a mezzanotte.
Alla fine, mi hanno incatenato mani e piedi, e mi hanno bendato. Ho supplicato il militare di lasciarmi avvertire la mia famiglia, perché mi stavano ancora aspettando dall’altra parte del valico. Hanno accettato, a patto che usassi queste esatte parole: “Non torno a casa stanotte”, e nient’altro.
Poi sono arrivati altri ufficiali. Mi hanno scaraventato nel retro di un grande mezzo militare. Avvertivo la presenza di uomini e cani intorno a me. I primi ridevano, i secondi abbaiavano. Ero terrorizzata. Mi hanno portato nel complesso militare di Ashkelon, dove mi hanno perquisito di nuovo, con le stesse, umilianti tecniche. Poi mi hanno messo in una cella piccolissima e semibuia. C’era un odore terribile. Era freddo, sebbene fossimo agli inizi dell’estate. Il letto era minuscolo e lurido, così come le coperte. I soldati hanno requisito tutti i miei averi, anche l’orologio.
Non sono riuscita a chiudere occhio, perché c’erano continui interrogatori, a distanza di poche ore l’uno dall’altro.Dovevo restare seduta su una sedia di legno per tanto tempo, e il trattamento era sempre lo stesso: venivo riempita di urla, insulti e parolacce. Sono rimasta ad Ashkelon per sette giorni. Ho potuto fare la doccia una volta sola, con acqua gelida. Di notte, sentivo voci di uomini e donne che venivano torturati; grida furiose in ebraico o in un arabo stentato; porte che sbattevano in modo orribile.
Alla fine di quella settimana, sono stata trasferita nella prigione di HaSharon, dove almeno potevo stare con altre detenute palestinesi. Alcune erano minorenni, altre madri, come me; c’erano anche delle signore più anziane. Ogni due o tre giorni, mi facevano uscire dalla cella per essere interrogata. Si partiva all’alba per tornare intorno alla mezzanotte. A volte, viaggiavo in grandi mezzi militari con altre donne, fino al tribunale. Venivamo incatenate individualmente, oppure l’una all’altra. Aspettavamo per ore, solo per sentirci dire che l’udienza era stata rinviata a data da definirsi.
In cella, era difficile sopravvivere in quelle condizioni, senza cure mediche. Una volta, una donna anziana è svenuta. Soffriva di diabete e non era curata adeguatamente. Abbiamo iniziato a urlare e a piangere. In un modo o nell’altro, ce l’ha fatta.
Sono rimasta in carcere per dieci mesi. Quando finalmente sono stata rilasciata, mi hanno messo agli arresti domiciliari per altri 5 mesi. Mi mancava la mia famiglia. Non facevo che pensare a loro, in ogni momento della giornata. Non ci sono parole per descrivere quanto straziante sia stata quell’esperienza: essere privata della libertà, ed essere costretta a vivere senza dignità né diritti. Non ci sono parole.
“Il giorno in cui ho visto mia madre” – Fuad Qassim al-Razam
Fuad Qassim al-Razam è nato nella città palestinese di Gerusalemme. Ha trascorso 31 anni in carcere per aver ucciso un soldato israeliano e un colono armato.
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
Nelle carceri israeliane, sono stato torturato psicologicamente e fisicamente, e costretto a confessare delitti che non avevo commesso. In genere, la prima fase della detenzione è la più difficile, perché le torture sono più intense e i metodi più brutali. Mi hanno privato del cibo e del sonno, rimanevo appeso al soffitto per ore. A volte, mi lasciavano in piedi sotto la pioggia, nudo, legato a un palo, con un sacco sulla testa, per una intera giornata; di tanto in tanto i soldati mi tiravano pugni, calci e mi colpivano con un bastone.
Mi hanno impedito di vedere la mia famiglia per anni, e quando finalmente mi hanno permesso di vedere mia madre, lei stava morendo. L’hanno portata con un’ambulanza alla prigione di Beir Al-Saba’, e mi hanno condotto in manette a incontrarla. Stava malissimo e non riusciva più a parlare. Ricordo ancora i tubi che le uscivano dalle mani e dal naso. Le braccia erano bluastre, ricoperte da ematomi causati dagli aghi, che trafiggevano la sua pelle delicata.
Sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro, quindi le ho letto dei versi del Corano prima di tornare in cella. È morta 20 giorni dopo. So che era molto fiera di me. Quando sono uscito di prigione, non sono potuto andare sulla sua tomba a leggere il Corano, perché mi hanno deportato immediatamente a Gaza dopo lo scambio di prigionieri del 2011. Un giorno, andrò sulla sua tomba.
“Mi hanno bruciato i genitali” – Mohammed Abul-Aziz Abu Shawish
Mohammed Abul-Aziz Abu Shawish è nato nel campo profughi di Nuseirat, a Gaza, nel 1964. La sua famiglia è originaria di Barqa, un villaggio del sud della Palestina che fu oggetto di pulizia etnica nel 1948. Ha trascorso 9 anni in carcere con l’accusa di detenzione illegale di armi e per la sua appartenenza al movimento di Fatah.
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
Sono stato arrestato da Israele sette volte; la prima, quando avevo solo sei anni. Era il 1970. Ero accusato di aver tirato delle pietre ai soldati israeliani. Poi sono stato arrestato durante l’adolescenza. In quell’occasione, mi hanno picchiato e un agente israeliano mi ha acceso un fiammifero sotto i genitali. Mi hanno denudato e mi hanno infilato le mutande in bocca per soffocare le grida. Nei giorni successivi, andare in bagno è stato dolorosissimo.
L’ultima volta, sono rimasto in carcere più a lungo. Sono stato arrestato il 23 aprile del 1985 e rilasciato 9 anni dopo, in seguito alla firma degli Accordi di Oslo.
La lotta per i nostri diritti non si è mai fermata, neanche in carcere. Ci siamo battuti entrando in sciopero della fame e loro ci hanno punito con l’isolamento e la tortura. Se la direzione del carcere soddisfaceva le nostre richieste per mettere fine allo sciopero, poi ci privava lentamente di tutte le conquiste ottenute. Non ci davano cibo, non ci facevano incontrare i familiari o gli altri detenuti. Spesso, ci sequestravano i libri, senza una ragione specifica.
Quando mi hanno liberato, l’8 gennaio del 1994, ho iniziato a collaborare con il dipartimento di riabilitazione dei prigionieri, presso il Ministero del Lavoro. Ho fatto sempre del mio meglio per aiutare i miei compagni, ex detenuti. Dopo la pensione, ho scritto un libro dal titolo Before My Tormentor is Dead, che racconta i miei anni in prigione. Non sono uno scrittore, ma volevo che tutto il mondo conoscesse le nostre sofferenze.
“Hanno arrestato la mia famiglia” – Shadi Farah
Shadi Farah è stato arrestato nella sua casa a Gerusalemme a soli 12 anni. Era accusato del tentato omicidio di un soldato israeliano per mezzo di un coltello, rinvenuto nella sua abitazione.
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
Sono stato arrestato il 30 dicembre del 2015, a soli 12 anni, e rilasciato il 29 novembre del 2018. All’epoca, ero il più giovane detenuto palestinese nelle carceri israeliane. L’interrogatorio si svolse nella prigione di Maskoubiah a Gerusalemme, nella Cella 4, per la precisione. Dopo giorni di torture fisiche, privazione del sonno e violenze, hanno arrestato tutti i miei familiari: mia madre, mio padre, le mie sorelle e i miei fratelli.
Mi hanno detto che li avrebbero rilasciati solo se avessi confessato i miei reati. Mi hanno insultato con epiteti irripetibili e minacciato di fare cose inenarrabili a mia madre e alle mie sorelle. Dopo ogni tortura, tornavo in cella e volevo solamente dormire. Ma i soldati mi svegliavano schiaffeggiandomi, dandomi calci con gli anfibi o pugni nello stomaco. Sono molto legato alla mia famiglia e non vederla mi spezzava il cuore.
“I carcerati sono eroi” – Jihad Jamil Abu-Ghabn
Jihad Jamil Abu-Ghabn ha trascorso quasi 24 anni nelle carceri israeliane per la sua partecipazione alla Prima Intifada e per il presunto coinvolgimento nell’uccisione di un colono israeliano. È stato rilasciato nel 2011.
(Foto di Ramzy Baroud e Abdallah Aljamal)
I miei carcerieri hanno provato in ogni modo a piegarmi e portarmi via la dignità, non solo per mezzo della violenza, ma anche con sottili tattiche tese a umiliarmi e a demoralizzarmi. Spesso, mi mettevano sulla testa un sacco dall’odore così terribile, che finivo per vomitarci dentro ripetutamente. Quando lo toglievano, avevo la faccia gonfia e un forte mal di testa, per via della mancanza di ossigeno.
Durante gli interrogatori (che sono durati per mesi), mi facevano sedere su una sedia traballante per ore. Era impossibile trovare una posizione comoda, e ancora oggi soffro di dolore cronico al collo e alla schiena.
A volte, facevano arrivare in cella dei ‘prigionieri’ che si professavano membri della Resistenza Palestinese. Solo dopo ho capito che in realtà erano collaboratori che volevano spingermi a confessare. Noi li chiamavamo assafir (uccellini).
I prigionieri palestinesi sono eroi. Non ci sono parole per descrivere la loro indomita capacità di resistere e le terrificanti prove che devono sostenere.
Traduzione di Romana Rubeo