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Siria: via gli Usa, arriva una ‘forza araba’

MONICA MISTRETTA – 4 GENNAIO 2019
Le truppe statunitensi dalla Siria se ne andranno, è solo una questione di tempo.

Ieri il presidente americano Donald Trump lo ha confermato, anche se ha spiegato che il ritiro non sarà questione di giorni, ma avverrà ‘lentamente’. Quando non si sa. Intanto Trump ha fatto un passo avanti e ha promesso di proteggere i curdi.

Le postazioni americane sono tutte nell’est della Siria: lì, accanto ai soldati statunitensi, ci sono le Forze Democratiche Siriane. Il grosso di questo schieramento è composto dalle milizie curde delle Unità di Protezione Popolare (Ypg): sono loro che hanno dato il contributo maggiore alla guerra contro l’Isis nella zona orientale della Siria, liberando l’ex capitale dello Stato Islamico, Raqqa. Adesso rischiano di rimanere senza la protezione del potente alleato.
Per la vicina Turchia i curdi che hanno combattuto al fianco degli Stati Uniti sono tutti terroristi: le Ypg sono una costola del ramo siriano del Pkk, l’organizzazione autonomista curda attiva da anni in territorio turco. Quando Trump ha annunciato il ritiro delle truppe americane, Ankara ha immediatamente minacciato un’offensiva militare in Siria per prendere il controllo delle zone occupate dai curdi delle Ypg.
Eppure, nel marasma delle dichiarazioni di Trump sul ritiro americano e le minacce di intervento del presidente turco Recep Tayyip Erdogan una notizia sembra essere passata inosservata. Nell’est della Siria c’è un altro protagonista di cui in questi giorni pochi si prendono la briga di parlare.
Era il 22 novembre quando ‘Voice of America’, il servizio ufficiale radiotelevisivo del Governo degli Stati Uniti, ha dato annuncio dell’arrivo di un grosso convoglio militare arabo nella provincia di Deir el Zor, nell’est della Siria. Un territorio che attualmente è sotto il controllo di Stati Uniti e Ypg. Da quale paese arabo sia arrivato il misterioso convoglio ‘Voice of America’ non lo ha detto.
Era da aprile che l’amministrazione Trump stava lavorando su un discusso piano alternativo per la Siria: rimpiazzare le truppe statunitensi con una forza militare araba alla quale sarebbe spettato il difficile compito di supportare le milizie curde contenendo le ire di Ankara e contrastando una possibile avanzata dell’Isis. Il tutto a pochi passi dalle truppe filoiraniane presenti nel sud e nell’ovest della Siria.
Secondo il report del ‘Wall Street Journal’, che aveva dato per primo la notizia, era stato l’allora ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ad aver offerto a Washington la disponibilità a portare avanti l’impresa. John Bolton, capo della sicurezza nazionale statunitense, non aveva perso tempo e in quei giorni di primavera aveva contattato il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel. Per l’ambizioso progetto c’era bisogno della mediazione del più grande stato arabo, destinatario fin dagli anni 70 di armamenti statunitensi. L’Egitto, tra l’altro, in passato aveva inviato preziosi consulenti militari al presidente siriano Bashar al Assad: il ruolo di mediatore gli sarebbe andato a pennello. In Siria stava per entrare l’ennesima forza militare straniera. Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi avrebbero contribuito finanziariamente all’impresa. I loro soldi sarebbero serviti a pagare i contractor privati coinvolti nel progetto, primo fra tutti Balckwater Usa, la società di Erik Prince, uomo vicinissimo a Trump. A Balckwater, a sua volta, sarebbe spettato il compito di arruolare i soldati, quasi tutti provenienti da paesi in via di sviluppo, come il Sudan. Il piano sembrava quadrare, ma da allora non se ne è più parlato.
Due cose fanno pensare che invece possa essere andato in porto. Alla fine di dicembre Ali Mamlouk, capo dell’intelligence siriana, ha fatto una visita inattesa al Cairo per incontrare la sua controparte egiziana, Abbas Kamel. L’uomo al quale si era rivolto Bolton. Pare che i due abbiano discusso di controterrorismo. Una settimana prima il presidente sudanese Omar al Bashir aveva fatto tappa a Damasco per incontrare Assad: nessuno ci ha ancora spiegato il perché.
In quegli stessi giorni le cose hanno cominciato a correre velocemente. Il 24 dicembre il Rappresentante speciale statunitense per la Siria, James Jeffrey, ha dichiarato che Washington non è più interessata al rovesciamento di Assad. Tre giorni dopo gli Emirati Arabi Uniti hanno riaperto la loro ambasciata a Damasco. E forse al prossimo summit della Lega Araba in Algeria sarà invitato anche il presidente siriano.
I più perplessi di fronte a questo piano sono proprio i curdi: adesso si trovano al loro fianco i Paesi arabi finanziatori degli jihadisti che loro hanno combattuto in Siria sacrificando vite di soldati e civili.
I leader curdi si sentono traditi. Sperano in un ruolo più importante della Francia che nell’est della Siria ha già 200 soldati. Qualche leader di vecchia data, come Ilham Ahmed, ha ventilato una minaccia: se le Ypg dovessero abbandonare le proprie posizioni, non avrebbero più la possibilità di controllare le prigioni sparse siriane dove sono detenuti molti jihadisti dell’Isis. Una volta liberi, gli estremisti potrebbero fuggire in Turchia e di lì passare in Europa.
Il progetto della forza araba in Siria è appena partito e già mostra le prime crepe. Due giorni fa il presidente americano Donald Trump ha definito ‘sabbia’ il territorio che presto le sue truppe dovranno abbandonare. Ma quella sabbia, sotto lo sguardo attento della Turchia, è tradizionalmente contesa da etnie curde e arabe. E adesso ospita nuove forze provenienti da altri paesi, forse dal Sudan. Il tutto a pochi passi dalle posizioni delle milizie filoiraniane che pochi mesi fa con la Siria di Assad hanno firmato un importante patto di cooperazione militare.
Ma quanti nemici cooperano militarmente in Siria? Quella ‘sabbia’ di cui ha parlato Trump, scotta come non mai sotto i piedi di tutti, americani compresi.