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SIRIA. Capo esercito israeliano: “Abbiamo dato armi ai ribelli siriani”

15 gennaio 2019, Nena News
Intervistato dal quotidiano britannico Sunday Times, Eisenkot ha ammesso per la prima volta che il sostegno israeliano ai gruppi di opposizione a Damasco non si è limitato agli “aiuti umanitari”, come Tel Aviv ha sempre affermato negli anni.

Una dichiarazione importante che mostra come Israele non sia mai stata “neutrale” sulla guerra civile siriana.

In una intervista al quotidiano britannico Sunday Times, l’uscente capo dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot ha ammesso per la prima volta che Israele ha fornito armi leggere per motivi di “autodifesa” ai gruppi “ribelli” siriani sulle Alture del Golan durante i sette anni di guerra civile siriana. Una dichiarazione importante in quanto finora Tel Aviv aveva sempre detto che aveva dato soltanto “aiuti umanitari” ai gruppi di opposizione (per lo più islamisti, quando non proprio jihadisti), negando, o rifiutando di commentare, le notizie relative ad eventuali invii di armi.
Notizie, quest’ultime, che in verità circolavano da anni: se Damasco le utilizzava per screditare l’opposizione “a soldo dei sionisti”, alcuni gruppi di opposizione le avevano diffuse sperando di poter incassare un maggiore sostegno dagli israeliani nella lotta contro il presidente siriano Bashar al-Asad. Ora però queste indiscrezioni sono confermate perché arrivano direttamente da un importante esponente d’Israele: lo stato ebraico non è mai stato “neutrale” sulla guerra civile siriana come ha più volte sostenuto il premier Netanyahu. A differenza di quanto hanno sostenuto per anni anche molti attivisti e commentatori pro-rivoluzione, anche quando questa era già stata evidentemente tradita dai gruppi islamisti e jihadisti, lo stato ebraico è stato parte in causa del conflitto siriano e ha sin dall’inizio spinto per la caduta di al-Asad nel tentativo di assestare un duro colpo al “nemico” sciita Iran.
Della cooperazione tra Tel Aviv e i “ribelli” si è parlato più volte nel corso di questi anni: dagli “aiuti umanitari” offerti sul territorio israeliano alle “opposizioni” siriane che generarono proteste, anche violente, dei drusi nel nord dello stato ebraico (in un caso almeno fu assaltata anche un’autombulanza che trasportava un combattente islamista), alle dichiarazioni di vicinanza espresse a più riprese da alcuni esponenti dell’opposizione “moderata” (un loro rappresentante incontrò anche pezzi importanti del mondo politico israeliano in un suo tour in Israele), ai ripetuti raid anti-Iran e anti-Hezbollah compiuti in Siria. In realtà anche lo stesso esercito israeliano aveva rivelato che, a partire dal 2016, stava lavorando all’“Operazione buon vicino”: una operazione definita umanitaria perché nata per impedire che migliaia di siriani lungo il confine potessero essere vittime della fame e per fornire cure sanitarie a coloro che non ne potevano disporre a causa della violenza della guerra siriana. Il programma si è poi concluso questa estate quando i soldati di al-Asad hanno ripreso il controllo dell’area frontaliera.
Ora però arrivano le parole di Eisenkot che di fatto confermano quanto già si sapeva, ma che molti fingevano di non vedere o non comprendere. A settembre uno studio del prestigioso Foreign Policy ha affermato che Tel Aviv ha fornito segretamente armi e finanziato almeno 12 gruppi ribelli siriani nel tentativo di impedire che le forze pro-iraniane e quelle jihadiste potessero collocarsi lungo il suo confine settentrionale. Israele, secondo il rapporto, pagava un salario mensile ai combattenti pari circa a 75 dollari e aveva fornito loro armi e altri materiali (il governo Netanyahu non ha mai commentato la notizia). Il sostegno diretto alle formazioni della variegata opposizione siriana sarebbe incominciato nel 2013 nell’area di Quneitra e Daraa (sud della Siria) ed è finito questa estate con l’avanzata delle truppe di al-Asad nelle aree meridionali dello stato arabo.
L’articolo sosteneva che le armi inviate ai “ribelli” comprendevano fucili d’assalto, mitragliatrici, mortai e veicoli. Nel 2013 l’esercito siriano denunciò di aver confiscato ai ribelli armi di fabbricazione israeliana. Ma molti archiviarono ben presto queste dichiarazioni ritenendole figlie di becera propaganda del regime per screditare l’opposizione su cui si gettava l’infamante etichetta di “collaborazionista con i sionisti”. Foreign Policy e soprattutto ora Eisenkot, invece, confermano quanto quelle parole fossero veritiere. Aiuti però, ha precisato la rivista statunitense, che furono poca cosa se paragonati ai finanziamenti e al sostegno ricevuti da quei gruppi da altri paesi (Qatar, Arabia saudita, Turchia e Usa).
Secondo il Times of Israel, le rivelazioni di Eisenkot vanno però inquadrate in una più ampia strategia messa a punto dall’esercito che consiste nell’essere più aperti sulle sue attività in Siria. Nelle sue ultime uscite da capo militare, Eisenkot ha in effetti ammesso le centinaia di bombardamenti compiuti dall’aviazione israeliana (in alcune interviste ha parlato di 200 raid, in altre 400). Tel Aviv, a suo dire, avrebbe sganciato nel solo 2018 2.000 bombe su target iraniani. Al Sunday Times l’uscente capo militare è stato sincero: “Abbiamo compiuto migliaia di attacchi senza assumerci la responsabilità e senza prenderci alcun merito”. La linea della trasparenza sulla Siria sembra essere stata sposata recentemente anche dal premier Netanyahu: domenica il primo ministro ha infatti ammesso che i jet israeliani avevano bombardato due giorni prima depositi di armi all’aeroporto di Damasco.