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Israele, nel cuore dello “Stato dei coloni” dove l’unica legge è la forza

Umberto De Giovannangeli 07/01/2019
In Terrasanta già esistono Due “Stati”: quello di Israele e quello di fatto dei coloni.

Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte ma che scandiscono la quotidianità di oltre 400mila cittadini-coloni. Lo “Stato di Giudea e Samaria”, è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Uno “Stato” che ha che ha avuto la sua consacrazione il 19 luglio scorso, quando la Knesset ha approvato a stretta maggioranza la legge che definisce Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”, e che nella norma numero 7 sancisce che “lo Stato vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico, (senza delimitarne i confini, ndr) come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere il suo consolidamento”.
L’affermarsi di questo “Stato dei coloni” rappresenta la sconfitta storica del sionismo. Rifletteva in proposito Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano: “Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare”.
Nel 2008, il professor Sternhell fu vittima di un attentato che solo per un “miracolo” non gli costò la vita. Trenta settembre: è quasi mezzanotte in un tranquillo quartiere residenziale di Gerusalemme Ovest. Sternhell esce di casa per chiudere il cancello e, in quel preciso istante, una pipe bomb esplode investendolo in pieno. Per fortuna alcune valigie hanno attutito l’impatto (il professore era appena tornato dall’aeroporto), altrimenti l’esplosione l’avrebbe ucciso. Secondo la polizia, l’attentato è stato meticolosamente pianificato. Qualcuno, appostato nelle case di fronte, ha seguito il professore, registrato i suoi movimenti e infine piazzato la bomba per ucciderlo. Non c’è alcun dubbio sulla matrice politica dell’attentato: attorno all’abitazione la polizia ha rinvenuto decine di volantini che offrono un milione di shekel (circa duecentomila euro) a chiunque uccida un membro dell’associazione pacifista “Peace Now”, della quale Sternhell è tra i fondatori. In un’intervista ad Haaretz rilasciata il giorno dopo l’attentato, Sternhell denunciò con forza la deriva fuorilegge in cui sta precipitando lo Stato d’Israele. Secondo Sternhell, “la violenza dei coloni si sta riversando oltre la Linea Verde dentro Israele. Ci sono due popolazioni e due sistemi legali nei Territori. Se si permette ai coloni di picchiare i Palestinesi, sradicare i loro alberi e demolire le loro abitazioni in West Bank, perché questo non dovrebbe accadere anche al di qua della Linea Verde?”.
E aggiunge che “se questo atto è stato perpetrato da un soggetto politico, allora questo è l’inizio della disintegrazione della democrazia in Israele, come successe in Europa,” riferendosi all’avvento del nazismo in Germania. “La situazione sta peggiorando rapidamente, a causa della violenza contro i Palestinesi nei Territori, che non può più essere separata dalla violenza contro gli ebrei che sostengono i Palestinesi.”
Un grido d’allarme rilanciato da un uomo di destra, ma di una destra moderata, che teme e prende le distanze da una destra che fa paura. Il suo nome è Moshe Ya’alon. Ecco alcuni passaggi della dichiarazione con cui ha annunciato, qualche tempo fa, le sue duplici dimissioni: dal Governo (era ministro della Difesa) e dalla Knesset (il Parlamento israeliano”. “Elementi estremisti hanno preso il potere nel Paese”, avverte Ya’alon. E ancora: “Ho combattuto con tutte le mie forze contro le manifestazioni di estremismo, violenza e razzismo nella società israeliana, che minacciano la sua robustezza, e poco per volta si infiltrano anche nelle Forze di difesa israeliane, danneggiandole…Ho combattuto con tutte le mie forze contro i tentativi di delegittimazione della Corte Suprema e dei giudici di Israele, tentativi che hanno conseguenze nefaste sullo stato di diritto, il che potrebbe essere disastroso per il nostro Paese”.
Per concludere così il suo possente j’accuse: “In generale, la società israeliana è una società sana, e la maggioranza di coloro che la compongono è sana di mente e aspira a un Paese ebraico, democratico e liberale”, annota Ya’alon. “Ma con mio grande dispiacere, estremisti ed elementi pericolosi hanno preso il sopravvento in Israele e nel Likud e ne stanno scuotendo le fondamenta minacciando di danneggiare i suoi abitanti”. “Purtroppo, i politici di alto livello nel paese hanno scelto la via dell’istigazione alla segregazione di parti della società israeliana, invece di cercare di unificarla. Non posso sopportare che saremo divisi a causa del cinismo e dell’aspirazione al controllo, e ho espresso il mio parere sulla questione più di una volta, dato che sono sinceramente preoccupato per il futuro della società israeliana e il futuro delle prossime generazioni”.
Alle paure di Ya’alon fa da contraltare la rivendicazione di identità, e di impunità, che nello “Stato” dei coloni. La violenza dei coloni e degli attivisti di destra israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania è triplicata lo scorso anno passando dai 140 “incidenti” registrati nel 2017 ai 482 del 2018 (dato di metà dicembre). A rivelarlo è un rapporto di Haaretz. Oltre al pestaggio e al lancio di pietre, tra gli atti anti-palestinesi sono considerati anche le scritte razziste, i danni compiuti alle case e alle macchine e il taglio degli alberi (in particolar modo ulivi).
Questi episodi, osserva Haaretz, erano diminuiti drasticamente nel 2016 e 2017 rispetto agli anni precedenti per il maggiore controllo operato dalle autorità israeliane in seguito all’uccisione di Saad e Riham Dawabsha e del loro figlio di 18 mesi Ali. Un attacco barbaro (le vittime furono arse vive) compiuto dai coloni nel 2015 nel villaggio palestinese di Douma (Nablus). L’atto vile ed efferato ebbe ampia eco mediatica allora, costringendo le autorità israeliane a mostrarsi per un po’ (almeno apparentemente) più intransigenti nei confronti dei settler. Lo Shin Ben (Intelligence interna israeliana) arrestò infatti nei giorni e mesi successivi alcuni estremisti di destra che avevano partecipato o erano sospettati di aver preso parte alla violenza e istigazione contro i palestinesi.
Secondo Haaretz, una serie di misure prese a quel tempo – detenzioni senza accuse, ordini di restrizione, la possibilità di interrogare i sospettati con metodi duri – contribuì ad abbassare il numero degli episodi di violenza contro i palestinesi. Tuttavia, continua il quotidiano, l’anno scorso, un po’ per il rilascio degli attivisti di destra e un po’ per la presenza di nuovi gruppi di giovani israeliani, gli anti anti-palestinesi sono aumentati. Violenza che, scrive il giornale liberal, è connessa al desiderio di vendetta degli israeliani per gli attacchi compiuti dai palestinesi. Si è registrato per esempio un aumento di violenze contro quest’ultimi dopo che lo scorso ottobre due israeliani sono stati uccisi nell’area industriale della colonia di Barkan. A pagare la ritorsione è stata soprattutto una donna palestinese Aisha al-Rab, 47 anni, che è stata uccisa dai coloni a colpi di pietra mentre viaggiava in macchina. Ieri la stampa israeliana ha riferito che cinque studenti di un seminario ebraico sono stati arrestati perché ritenuti responsabili del suo omicidio.
Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati lo scorso mese nelle aree di Ramallah e Nablus (Cigiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Lo scorso mese nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 macchine bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.
Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle 300 unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i 15 e i 16 anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 400.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali.
Il “cuore” ideologico dello “Stato” dei coloni è a Hebron. Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché 800 coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare 200mila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l’essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché “questa è Eretz Israel”, la Sacra Terra d’Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto. Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l’altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una “Fede” che non ammette compromessi.
Tra tre mesi, il 9 Aprile, Israele andrà al voto, per le elezioni legislative anticipate. Con il centrosinistra che si spacca, un primo ministro, Benjamin Netanyahu, che da temere ha “solo” i suoi guai giudiziari, la destra ultranazionalista è data in crescita nei sondaggi. Nello “Stato” dei coloni non c’è partita: qui non c’è spazio per pacifisti, sinistri e sionisti. Qui il sionismo è morto.