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IL PONTE BALCANICO. Mehmet Pasha Sokolović e il Ponte sulla Drina

Marco Siragusa 24 gennaio 2019
Reclutato da bambino dall’impero ottomano, diverrà Gran Visir, garantirà la libertà di culto e si farà promotore di numerose iniziative culturali e architettoniche. Ma la sua opera più nota resta il ponte sul fiume della cittadina simbolo della ricchezza etnica e confessionale bosniaca e delle tormentate vicende della regione: Višegrad.

Nel bel mezzo di quelli che vengono definiti Balcani Occidentali è situato un piccolo paese bosniaco, Višegrad, spesso confuso con l’omonima città ungherese che ha dato il nome all’alleanza politica tra Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia e oggi sostenitrice di politiche euroscettiche e anti immigrazione. Con appena 11mila abitanti questo piccolo comune non svolge nessuna funzione di particolare importanza per l’economia bosniaca. Eppure, per tanto tempo, questo centro abitato sulle rive del fiume Drina è stato il confine, prima naturale poi militare, di due mondi contrapposti tra loro: l’Impero Ottomano e quello Austro-ungarico.
L’avanza ottomana in Bosnia risale alla seconda metà del Quattrocento e si prolungò per oltre quattro secoli fino a quando, a seguito del Congresso di Berlino del 1878, la regione passò sotto l’amministrazione austro-ungarica fino alla conclusione della prima guerra mondiale che sancì l’annessione del paese al Regno di sloveni, croati e serbi.
Durante il dominio ottomano, Višegrad acquisì una certa notorietà grazie a Mehmed Pasha Sokolović. Nato nel 1505 a Sokolovići, un paesino nelle vicinanze, Mehmed Pasha fu reclutato dall’impero secondo la tradizione del devşirme, un sistema di arruolamento forzato dei bambini cristiani destinati alla carriera militare come forma di tributo nei confronti del Sultano. Grazie alle doti mostrate durante i suoi anni di servizio, Mehmed venne nominato nel 1551 governatore della Rumelia. Appena quattro anni dopo, entrò in contatto diretto con la famiglia imperiale grazie alla nomina a terzo visir voluta dal Sultano Solimano. Fratello del patriarca ortodosso di Peć Makarije Sokolović, nel 1557 Mehmed si fece promotore di un editto con cui veniva garantita la libertà di culto all’interno dell’impero e che ripristinava il patriarcato abolito dagli ottomani nel 1463.
Nel 1561 venne promosso a secondo visir e dopo quattro anni ottenne il ruolo di Gran visir, carica corrispondente al primo ministro dell’impero. Dal punto di vista storico, il suo nome è legato soprattutto alla battaglia di Lepanto (1571) che vide contrapposti l’esercito veneziano e quello ottomano per il dominio dell’isola di Cipro, strategico possedimento per il controllo del Mediterraneo. Nonostante la sconfitta delle truppe ottomane, l’isola venne successivamente conquistata dall’esercito imperiale ormai dominatore incontrastato della regione. Mehmed Pasha Sokolovic morì assassinato da un derviscio nel 1579.
Al di là dei suoi meriti militari, che estesero notevolmente il controllo ottomano da Cipro a Belgrado, il suo nome è legato anche a questioni di carattere culturale e artistico. Durante gli anni del suo mandato si fece promotore della costruzione di numerose opere architettoniche e infrastrutturali. Nel villaggio di Sokolovići fece costruire una moschea, una scuola e un nuovo sistema di irrigazione ancora oggi esistente. A lui vengono attribuiti il ponte Kozja di Sarajevo e quello del Visir a Podgorica, capitale del Montenegro, così come oltre 14 edifici religiosi di Istanbul. La sua opera più famosa rimane, senza ombra di dubbio, il ponte sulla Drina fatto costruire, una volta diventato Gran visir, proprio a Višegrad e reso leggendario dall’omonimo capolavoro con cui Ivo Andrić ottenne il premio nobel per la letteratura nel 1961, unico jugoslavo della storia ad ottenere questo riconoscimento.
Come magistralmente descritto da Andrić, le cronache del ponte di Višegrad rappresentano l’emblema delle vicende bosniache, e balcaniche in generale, le trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno caratterizzato la regione lungo oltre quattro secoli di storia.
Il punto più importante del ponte, che con le sue undici arcate di pietra bianca collega le due sponde della Drina, è la kapija dove fu eretta una stele di marmo su cui sono iscritti tredici versi che indicano il nome del costruttore e l’anno. Per secoli la kapija fu luogo di mercanti, che avevano fatto di quel piccolo spazio il proprio mercato, e degli abitanti del paese che amavano intrattenersi lì a discutere. Višegrad rappresentava, già a metà del ‘500, una piccola riproposizione della eterogenee composizione etnica e religiosa che caratterizza la Bosnia. Abitata da cristiani, musulmani ed ebrei, serbi, bosniaci e turchi, la città ha costruito attorno a quell’imponente opera la propria vita.
La sua costruzione fu inizialmente boicottata dalla raja, la comunità cristiana. Per Radisav, uno dei protagonisti del libro di Andrić, “non è certo ai poveri e alla raja che serve il ponte. Serve solo ai turchi: noi non abbiamo bisogno di fare guerre né abbiamo grandi commerci, per noi un traghetto è più che sufficiente”. La modernità, rappresentata dal ponte, veniva quindi osteggiata da una parte della popolazione locale, preoccupata per le trasformazioni che avrebbe potuto portare nella piccola città. Le parole di Radisav avevano però anche una motivazione più concreta. Durante le prime fasi, e senza che Mehmet Pasha fosse informato, gli operai che lavoravano alla costruzione non furono pagati perché il fiduciario del visir, Abid-aga, teneva per sé quanto destinato ai lavoratori. Venuto a conoscenza di ciò, il visir sostituì Abid-aga e i lavori poterono riprendere senza intoppi.
Oltre al ponte era stata edificata, in una delle due sponde, una locanda, anch’essa di pietra bianca, il cui denaro necessario al mantenimento proveniva dai possedimenti imperiali in Ungheria. Con la ritirata turca dall’Ungheria del secolo successivo, la locanda cadde in disgrazia. Durante le prime rivolte serbe contro i turchi all’inizio dell’ottocento, il ponte rappresentava l’unico collegamento sicuro tra Serbia e Bosnia nonostante fosse stato trasformato in un presidio militare e poi nella frontiera tra Serbia e Impero. Dopo il Congresso di Berlino la Bosnia passò sotto amministrazione austriaca pur rimanendo formalmente un possedimento ottomano. Da Višegrad e dal suo ponte passarono le truppe turche che abbandonavano la Bosnia dando il via libera alla dominazione austriaca. Ancora una volta la piccola città si trovò a fare i conti con quanto accadeva intorno ad essa, preda dei giochi di potere delle grandi potenze.
L’arrivo degli austriaci portò con sé una nuova fase di modernizzazione, vista con sospetto dagli abitanti del luogo. Le abitazioni in legno lasciarono il posto a costruzioni in muratura, vennero introdotti nuovi metodi di misurazione del terreno, la piazza principale venne allargata e l’intera città, compreso il ponte, fu dotata di un sistema di illuminazione permanente. La locanda all’estremità del ponte, ormai ridotta ad un rudere, venne demolita e al suo posto venne eretta una caserma per i soldati austriaci. Per la prima volta, a tre secoli di distanza dalla sua costruzione, alle donne fu concesso di stare sul ponte esattamente come agli uomini. I lavori di modernizzazione proseguirono fino ai primi anni del novecento dotando la città di un acquedotto e soprattutto di una ferrovia in grado di ridurre i tempi di viaggi verso Sarajevo da due giorni a quattro ore.
Il nuovo secolo portò con sé però anche la diffusione delle prime organizzazioni politiche, sostenute dai giovani che si recavano a Vienna per proseguire gli studi. Al loro ritorno nel paese portavano con sé libri e giornali, spesso di estrazione socialista, che trattavano temi come la questione agraria e le rivendicazioni nazionaliste dei popoli oppressi dagli imperi. Sulla kapija si fecero sempre più frequenti le discussioni politiche sulla lotta di liberazione nazionale, sulla necessaria formazione di nuovi Stati indipendenti e sulla nascita dei movimenti di massa. La città si stava trasformando esattamente come accadeva al resto del paese e d’Europa. Le guerre balcaniche contro i turchi, scoppiate sul finire del primo decennio, spostarono la frontiera di mille chilometri relegando nuovamente il paese ad una posizione di marginalità.
La narrazione di Andrić si ferma agli anni immediatamente successivi allo scoppio della prima guerra mondiale e all’attentato messo in atto il 28 giungo 1914 dal giovane bosniaco Gavrilo Princip contro l’Arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie. Dopo la dichiarazione di guerra alla Serbia, Višegrad e il ponte furono bombardati per diverso tempo. La città fu quasi del tutto abbandonata dai suoi abitanti e una delle poche cose che restò in piedi fu il ponte “come condannato, ma ancora indenne e integro, tra due mondi in guerra”. Poco dopo si conclude il racconto de “Il ponte sulla Drina” ma non la storia di Višegrad e della sua eterna opera.
Durante la seconda guerra mondiale, la ferocia dell’uomo riuscì lì dove nessuno era mai riuscito, neppure la natura e le possenti correnti della Drina. Il ponte subì gravi danni con la distruzione di cinque archi, poi ricostruiti dal governo socialista a conclusione della guerra. Dopo decenni di pace durante la Jugoslavia socialista, il ponte tornò ad essere un luogo macabro e tristemente noto.
Nelle guerre jugoslave che sconvolsero i Balcani negli anni ’90, la città fu vittima di una delle più cruente operazioni di pulizia etnica perpetrate dalle truppe paramilitari serbe. Il ponte venne scelto come luogo di esecuzione per i musulmani che abitavano la zona. I loro corpi, dopo esser stati trucidati, venivano gettati dal ponte giù sulla Drina ormai trasformata in un vero e proprio cimitero.
Oggi il ponte, divenuto patrimonio dell’Unesco, sta ancora lì a ricordare di come l’uomo sia capace anche di compiere imprese eterne, di straordinaria bellezza. Višegrad è tornato ad essere un paesino tranquillo frequentato da turisti attratti dal ponte dove, ancora oggi, è possibile incontrare giovani del luogo intenti a cantare canzoni delle loro tradizioni popolari. La storia va avanti, cambiano i confini, gli eventi si succedono uno dietro l’altro, ma il ponte rimane lì “bianco, solido e invulnerabile, com’era sempre stato”.