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Dai lager libici alle isole greche: l’inferno dei migranti non ha confini

Umberto De Giovannangeli 10/01/2019
Dai lager libici agli inferi greci. Una tragedia umanitaria senza fine. Storie di sofferenze indicibili, di dignità calpestate, di diritti violati.

Storie che hanno un nome, un volto, ma che spesso, troppo spesso finiscono per ridursi a numeri, per tornare a esistere, mediaticamente, solo se quella sofferenza viene catturata da un flash e si trasforma in una foto che fa versare lacrime il tempo della sua visione. Per poi dimenticare. L’indignazione è considerata tradimento, la solidarietà un reato da chi riesce anche a speculare sulla sorte di 49 disperati. Resistere significa restare umani.

E, per chi ha la possibilità di avere uno spazio, anche minimo, nella comunicazione, restare umani vuol dire sostenere quanti quel mondo sofferente praticano ogni giorno, e ogni giorno danno conto di situazioni terrificanti, che non trovano spazio sulle prime pagine dei giornali o nei titoli di testa di un Tg, perché vanno contro la narrazione di regime o perché non possono essere riportate alla miseria della polemica politica di casa nostra. Restare umani è anche mantenere accesi i riflettori su realtà scomode. Scomode perché chiamo in causa una Europa silente, e dunque complice, alla ricerca di Gendarmi a cui esternalizzare, a suo di miliardi, le proprie frontiere. Scomoda, nonché scioccante, è la realtà portata alla luce da Oxfam. Centinaia di donne incinte, minori non accompagnati, sopravvissuti alle torture e agli abusi sono costretti nel pieno dell’inverno a vivere in condizioni “disumane” nei campi profughi delle isole greche. È la denuncia contenuta nel report “Vulnerabili e abbandonati”, diffuso da Oxfam, attraverso tante drammatiche testimonianze di migranti a cui viene negato il diritto a un’accoglienza dignitosa, come conseguenza del collasso del sistema di identificazione e di protezione, dovuto alla mancanza di personale qualificato e a processi burocratici kafkiani. Nel dossier, le voci di madri che sono state mandate via dagli ospedali a soli quattro giorni da un parto cesareo e che si sono ritrovate a vivere in una tenda assieme ai figli appena nati.
Le testimonianze di minori e donne sopravvissuti a violenze sessuali e ad altri traumi, che sopravvivono in campi profughi dove regolarmente avvengono risse e dove di conseguenza i 2/3 di chi è costretto a viverci afferma di non sentirsi mai al sicuro. Nel campo di Moria – che contiene il doppio di persone che potrebbe accogliere – vivono ammassate centinaia di persone, con un solo medico per quasi tutto il 2018, incaricato dalle autorità di Lesbo di provvedere all’identificazione e al primo soccorso delle circa 2.000 persone, che arrivavano ogni mese sull’isola. Fino ad arrivare al punto che lo scorso novembre non c’è stato neanche quell’unico medico ad assistere le persone più fragili e garantirne il diritto alla salute. Il tutto in un quadro dove le procedure di identificazione sono cambiate tre volte solo nell’ultimo anno, aumentando il caos di cui sono vittime persone che hanno già sofferto traumi indicibili.
“È inaccettabile trovarsi nella condizione di non poter identificare le persone che hanno immediato bisogno di aiuto. – rimarca il responsabile emergenze umanitarie di Oxfam Italia, Riccardo Sansone – I nostri partner sul campo hanno riportato casi di madri con neonati costrette a dormire sotto una tenda e di adolescenti registrati erroneamente come adulti e rimasti bloccati nei campi. Identificare e assistere queste persone è un dovere fondamentale sia per la Grecia che per l’Europa. In base alle norme europee e greche, minori non accompagnati, donne incinte o con bambini piccoli, persone con disabilità e sopravvissuti a torture devono essere identificati come vulnerabili e quindi rientrare nel normale sistema di accoglienza per richiedenti asilo, anziché essere sottoposti a processi lampo con il solo obiettivo di rimandarli in Turchia.– aggiunge Sansone- Dovrebbero avere accesso ad una casa o una sistemazione adeguata e cure mediche appropriate sulla terraferma, ma tutto questo non sta avvenendo”.
Sono moltissimi i casi di persone detenute ingiustamente nonostante siano giovanissime, soffrano di malattie psichiche e o disagi fisici dovuti ai traumi subiti. Una condizione in cui è difficilissimo avere accesso a cure mediche e all’assistenza psicologica. “Avevamo solo due ore al giorno in cui ci era permesso uscire dal container. Il resto del tempo stavo seduto in un piccolo spazio con altri 15 uomini, tutti con problemi.” Così, un richiedente asilo di 28 anni proveniente dal Camerun racconta la sua detenzione durata 5 mesi. Rinchiuso solo a causa della sua nazionalità, nonostante avesse seri problemi di salute mentale. Una situazione in cui nessuno ha verificato il suo stato mentale o fisico prima che venisse detenuto ed è passato più di un mese prima della visita di uno psicologo. Lesbo fece notizia quando a visitare i migranti lì ammassati fu Papa Francesco. Era il 16 aprile 2016. Dal Moria Refugee Camp di Lesbo, il Papa aveva lanciato un segnale di vicinanza: “Non siete soli”. E poi aveva sferzato il vecchio continente chiedendo che faccia memoria della sua storia: “L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare”.
Così non è. L’inverno – dice il rapporto di Oxfam – ha portato una pioggia incessante a Lesbo e la tendopoli è diventata una vera e propria palude di fango, con le temperature che nelle prossime settimane si abbasseranno ancora sotto lo zero portando la neve. In cerca di qualsiasi fonte di calore le persone stanno iniziando a bruciare tutto quello che trovano, inclusa la plastica. Portano stufe improvvisate e pericolose dentro alle tende, rischiando la vita solo per riscaldarsi. “Le autorità locali e le organizzazioni umanitarie stanno facendo il possibile per migliorare le condizioni di vita delle persone bloccate nei campi, ma tutti gli sforzi sono resi vani dalle politiche che continuano a bloccare le persone sull’isola per periodi di tempo indefiniti”, sottolinea ancora Sansone. “Di fronte a questa situazione facciamo appello all’Unione europea, agli Stati membri perché si trovi al più presto una soluzione all’emergenza che si sta consumando nelle isole greche: servono uno staff sanitario adeguato, un diverso sistema di identificazione dei più vulnerabili e trasferimenti regolari dei migranti sulla terraferma.– afferma il dirigente di Oxfam. – Stiamo assistendo ad una chiusura di fatto delle frontiere europee, che tradisce i valori fondanti dell’Unione e il comune senso di umanità che dovrebbe guidarne l’azione. Alle frontiere di Croazia e Ungheria migliaia di uomini, donne e bambini che non hanno più nulla, vengono respinti in Serbia dove sono costretti a vivere intrappolati, come in un limbo. Qui noi di Oxfam lavoriamo per assicurare pasti e ricovero nei centri predisposti dal Governo”. Una situazione che investe anche la frontiera italiana, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, dopo la chiusura dei porti decisa dal Governo l’estate scorsa.
“Tutto questo è insensato e ingiusto – conclude Sansone – Ciascuno Stato deve fare la propria parte accogliendo una quota di migranti e agire perché si giunga prima possibile alla riforma del Trattato di Dublino, in linea con la posizione del Parlamento europeo”. Fare la propria parte. Dimostrare che la civiltà europea non si è inabissate nel “mare della Morte”, il Mediterraneo, o sepolta in una delle tante fosse comuni scavate nel deserto per far scomparire i cadaveri di persone fuggite da guerre e sfruttamento, finite nelle mani dei trafficanti di esseri umani e morte di fame e sete nelle traversate del Sahara o giustiziate perché non potevano pagare il riscatto. Il mondo delle Ong, quello che il ministro della Paura che siede al Viminale, accomuna agli scafisti, quella civiltà la difende ancora. Non sono degli eroi. Sono persone che sanno che “salvare una vita è salvare l’umanità”.